Foppapedretti Bergamo, un libro così bello che vorremmo non finisse mai

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Di Stefano Benzi

Purtroppo non è una storia nuova e di solito non è nemmeno una storia che ha un lieto fine: di squadre che sono nate, esplose e implose, a volte, anche nel giro di pochissimi anni è piena la storia della pallavolo e anche di altri sport. È successo nel basket, nell’hockey, persino nel calcio. Molte squadre di calcio che vediamo in Serie A o B sono uscite da fallimenti drammatici come la Fiorentina o il Palermo altre nella, migliore delle ipotesi, sono ripartite dalla C2. Altre ancora sono finite nei dilettanti e lì, molto spesso, sono rimaste.

Nel corso di tanti anni di professione ho imparato a diffidare di alcune parole chiave che compaiono quando ci sono squadre in affanno economico: la prima è “cordata”… quando si parla di “cordata di imprenditori” mi si accappona la pelle. Cordata significa che alcuni soci parleranno di soldi da investire e altri da guadagnare: ci sono proprietari di club che non riescono ad andare d’accordo con la propria ombra, figuriamoci con dei soci.

L’altra definizione che rifiuto è “investitori stranieri”: negli ultimi anni sempre più spesso il nostro sport ha rivolto la sua attenzione all’estero cercando soldi, sponsor o addirittura acquirenti. In qualche caso si trattava di operazioni di facciata. È un metodo vecchio come il mondo. In altri casi si vedevano imprenditori che arrivavano in fuoriserie e vestiti di seta per comprare una società: firmavano, scattavano foto con la sciarpa al collo e se ne andavano. Il problema è che poi non li vedevi più. Ne ho viste di tutti i colori: c’era stato Joseph Cala, un magnate americano con una società new economy quotata nel Nasdaq che voleva comprare la Salernitana: ma dopo aver preso le quote non ha pagato nemmeno uno stipendio ed è scomparso senza lasciare tracce. Meraviglioso il caso di Tim Barton che arriva come un salvatore della patria a Bari: i Matarrese in dodici anni avevano avviato diciassette trattative di cessione e quando meno se l’aspettano ecco Barton, americano, ricco, gran personalità. In poche ore a Bari concede decine di interviste e di foto, visita il centro storico, fa le foto con i bambini in braccio come il Papa. Urla in italiano “vi farò sognare…”: sogna, sogna. Barton scompare: lui con i suoi soldi e le sue promesse e a Bari non metterà più piede.

Mi sono dilungato in questa introduzione per far capire agli amici del volley che sono in buona compagnia: da noi sono scomparse Parma, Treviso, Milano e Roma a più riprese, spesso rinate e di nuovo fallite, ma anche Palermo, Catania, Matera. Nessuna eccezione, squadre di città grandi o provinciali, vincenti o meno, maschili e femminili. Perché purtroppo tutto ruota intorno ai soliti, maledetti soldi… come ho già scritto una volta (leggi qui).

Bisogna averli, certo, ma soprattutto spenderli bene: basta un passo sbagliato, uno sponsor che se ne va, un investimento eccessivo e sei con il sedere sul pavimento. È successo decine di volte. Vi racconto un altro aneddoto: quando qualche anno fa Milano partorì la Sparkling, a rinforzare la dirigenza arrivò niente meno che Lapo Elkann. Tralascio il fatto che non ho capito nulla di quella sua conferenza stampa interminabile e con migliaia di parole in inglese: perché tra target, top level, highground, feedback, total ambition, excellence, success obsession e volley devoted alla fine mi sembrava di aver assistito a un master dell’università di Cambridge. Elkann era arrivato per portare soldi e investitori, ma gli investitori non arrivarono, i soldi nemmeno: la Sparkling è stata sotterrata al termine di quell’esperienza.

Triste? Sì, ma anche fatale. Nello sport, come nella vita le chiacchiere stanno a zero: conta chi sa fare le cose, chi costruisce e chi è abbastanza bravo da trovare dei partner più che degli sponsor, marchi che credono nel tuo progetto e lo appoggiano senza riserve.

Sono molto deluso e preoccupato da quanto sta accadendo a Bergamo: si è seminato bene per anni con giocatrici straordinarie che ci hanno fatto innamorare del volley come Cacciatori, Piccinini, Lo Bianco, Cardullo, Paggi. Senza dimenticare quelle del passato fino al decennio scorso: la pantera Keba Phipps, l’adorabile Darina Mifkova, la fulminante Giseli Gavio e ancora Kirillova, Zetova, Wu Dan, Barazza, Secolo… Credo che tutte le ragazze che hanno vestito almeno per una stagione la divisa rossoblu l’abbiano un pochino tatuata sulla pelle perché Bergamo è sempre stata una piazza speciale.

Merito di un garante come Luciano Bonetti che per un quarto di secolo ha dato al suo progetto una continuità impressionante in un paese incostante e ciclotimico come il nostro trovando in Foppapedretti un partner generoso e ugualmente vincente. Ma l’Italia è un paese strano. Dispiace, ma non riesco a puntare il dito contro l’azienda che decide di andarsene… anzi, è un miracolo che abbia investito così tanto per tutti questi anni.

Guardo il palmares di questa squadra, sette Champions League, otto Titoli nazionali, sei Coppe e altrettante Supercoppe italiane più una Coppa Cev. Questo è solo quello che emerge e che si vede testimoniato dai gagliardetti che penzolano dentro il PalaNorda: ma ci sono anche più di venti anni di partite professionistiche, un’infinità di giocatrici e migliaia di ragazze che hanno giocato a pallavolo vestendo quella maglia nelle leve giovanili divertendosi.

I soliti maledetti soldi… Se questo fosse nemmeno un paese civile, cosa che a volte dubito sia, ma un paese quanto meno normale, verrebbe dato un riconoscimento a tanto lavoro. Esisterebbero sgravi fiscali, incentivi a chi investe nello sport: forse in un paese normale avremmo meno spot pubblicitari in tv e più squadre che producono benessere a crescere indisturbate alimentando un territorio che ha un bisogno disperato di iniziative come queste. Vedere Bergamo a zero punti fa male al cuore: penso a quelle ragazze in campo che portano indosso una maglia così pesante in un momento così difficile e dico loro “Coraggio, altri ci sono passati prima di voi, purtroppo in questo paese del calcio capita, a tutti i livelli e in tutti gli sport”.

La mia speranza è che da Bergamo, città che ha una cultura del lavoro impressionante, e dove il lavoro è una cosa dannatamente seria, esca un nuovo partner capace di ricominciare da capo senza chiudere un libro che ha troppe pagine belle e commoventi perché finisca ad ammuffire su uno scaffale.

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