Quando un Mondiale "biancoenero" tinge un intero paese d’azzurro

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Di Stefano Benzi

Le vittorie le ricordo abbastanza bene; ma quelle che ricordo meglio sono le sconfitte. Sarà che sono nato a Genova, città che è patrimonio dell’Unesco in quanto ad autolesionismo e autoironia; sarà che da piccolo mi hanno insegnato a stare con gli indiani; o forse sarà che le sconfitte sono quelle che bruciano spesso e non rimarginano mai. Io di sconfitte ne ho subite tante, e cocenti: dolorosissime. Sconfitte del cuore, dell’anima e anche professionali. Magari un giorno ve le racconterò. Ma la sconfitta che non potrò mai dimenticare fu quella del 1978… Mondiali di volley che si tengono per la prima volta in Italia. L’Italia gioca a Roma la fase a gironi e batte Belgio, Egitto e Cina concedendo un solo set ai cinesi.

Il 21 settembre, secondo giorno di scuola, sbatto per terra in aula: essendo il mio soprannome ancora “costola” in quanto magro al limite del rachitismo (cosa che può apparire impensabile a chi mi conosce oggi ma che è suffragata da numerose foto) mi portano in ospedale chiudendo l’argomento con un “rapido sbalzo di pressione dovuto alla crescita o a una scarsa colazione”.

In ospedale tale professor Balzaretti mi tasta pancia, stomaco e inguine pronunciando due sole parole: “Operare, subito”. E mi ritrovo per la prima volta ad “apprezzare” (si fa per dire…) la straordinaria sensazione che ti dà la morfina… Mi operano di appendicite acuta: “Una peritonite sfiorata di un nulla”, chiosò Balzaretti.

Appendicite, peritonite… ma chi se ne frega. L’Italia deve giocare la seconda fase, c’è il Brasile. Al Martinez di Pegli, un ospedale già cadente allora e che è stato dismesso da almeno venticinque anni, eravamo tutti in fibrillazione. L’unica TV dell’ospedale viene sequestrata e la prima suora che a suon di boati viene richiamata nel salone è cacciata fuori quasi in malo modo.

I set erano ai 15, non c’era il tie-break e anche il quinto set finiva ai 15 come gli altri; si poteva murare anche la battuta, gli schemi non li portavi in panchina con l’iPad. Ma la sintesi della pallavolo era che una gara poteva durare ore e ore. La vittoria con il Brasile, battuto 3-2, me la ricorderò finché vivo: sul 17esimo punto del quinto set saltai in piedi e la mia ferita si aprì. Chirurgia, altri punti: “Senza anestesia, così impara”, stabilisce la suora. Sempre quella, che io avevo soprannominato poco educatamente “Madre Camallo” (i “camalli” sono gli scaricatori di porto).

All’epoca per l’appendicite il ricovero variava dai sette ai dieci giorni: in pratica tutti i Mondiali me li sono visti con i punti tirati e pronti a esplodere in una specie di curva privata del Martinez affollata da tifosi che si definivano “Misci e mä pigiæ” (poveri e mal presi), perché tra sedie a rotelle, flebo, punturine e pastigliette il reparto chirurgia maschile del Martinez sembrava un lazzaretto di caduti in battaglia che si svegliavano solo per la pallavolo.

L’Italia cadde due volte: con l’URRS, una durante la seconda fase che ci vide secondi del nostro girone e un’altra in finale dopo che in semifinale eliminammo Cuba con una delle partite più belle di cui ho memoria. Era la squadra di Dall’Olio e Lanfranco ma soprattutto della Paoletti Catania che in quel periodo dominava e il cui allenatore, Pittera, CT della Nazionale, in disaccordo con le volontà federali che volevano più e meglio rappresentata la capitale, prestava agli azzurri ben cinque giocatori su dodici. Alessandro, Concetti, Scilipoti, Nassi, Greco, Di Coste… che squadra. Dall’Olio alzava palloni ricamati e buttava giù muri di cemento armato pesante. Una squadra operaia ma agile, bella da vedere, lontanissima dal volley iperfisico e supertiroideo che si vede oggi.

Oggi, appunto. A tanti anni di distanza il ricordo di quella Nazionale rischia di diventare un po’ come la Nazionale di Fantozzi durante la proiezione della Corazzata Potemkin: Inghilterra sconfitta 20-0 con gol di testa di Zoff da calcio d’angolo. Di sicuro ricordo un set mostruoso degli azzurri che sotto 11-0 andarono a vincere 15-11 contro la Cina. La semifinale con Cuba la vidi in piedi, aggrappato alla sponda della scalinata: una vittoria in rimonta impressionante con Pittera che dalla panchina mandò in campo con scientifica precisione Scilipoti a piazzare tutti i punti decisivi.

Che volete che vi dica, o scriva… sono stato lungo anche stavolta. Perdemmo la finale con l’URSS, è vero. Ma contro quella squadra vincere era semplicemente impossibile: e comunque un successo lo ottenemmo. Le scuole finalmente cominciarono sul serio a giocare a pallavolo: un intero paese si innamorò di questo sport fino a quel momento ritenuto provinciale e troppo femminile per il testosterone calcistico degli italiani. Quel mondiale perso ci portò in dote giocatori come Bernardi, Vullo, Cantagalli, Zorzi, Lucchetta, Gardini che nacquero da quella sconfitta e permearono il DNA di una nuova Nazionale, capace di vincere il mondiale tre volte di fila tra il 1990 e il 1998.

Io sono assolutamente convinto che gli esempi, i giocatori capaci di andare al di là dell’ingaggio, quelli che riescono a perdere facendo credere un intero paese che in realtà si è vinto, siano la miglior promozione possibile per uno sport. Oggi sento dirigenti sportivi che si riempiono la bocca parlando di strumenti di marketing, di social strategies e la cui unica preoccupazione è fare proselitismo per prendersi i voti e redistribuire favori. Oggi alcune federazioni sono convinte che per portare i ragazzi a fare sport si debba gestire una televisione e guadagnare sui diritti…

In questo paese tutto “chiacchiere e distintivo”, dove tutto si ferma al sembrare e all’apparire e dove sostanza e contenuto sono diventati ingredienti ormai inutili, abbiamo perso molte occasioni. La pallavolo è ancora a macchia di leopardo, compare e scompare come il morbillo, con particolare frequenza nelle grandi città. E invece… e invece qui dove dovremmo tutti saper nuotare come delfini, e andare di vela e parlare un linguaggio erudito che mezzo mondo ci invidia, facciamo le conte con le oche che sguazzano nello stagno putrido, blaterando idiozie sui social media. Perché niente è come è, e tutto è come appare.

Rivorrei la mia dannata appendice e quello stanzone d’Ospedale: perché la prima cosa che feci quando il ricovero finì fu andare dal mio professore di ginnastica e chiedergli di farci giocare a pallavolo. A breve avremo di un nuovo un Mondiale in Italia, organizzato in gemellaggio con la Bulgaria… vanno di moda oggi le coesistenze organizzative. Lo vorrei in biancoenero, please…

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