Pupo Dall’Olio, quel 1978 e il Gabbiano d’Argento

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Di Redazione

Una vita passata sui campi di pallavolo, prima come giocatore e poi come allenatore. Francesco “Pupo” Dall’Olio, ex palleggiatore azzurro tra gli anni settanta e ottanta, racconta a la “Gazzetta dello Sport” l’emozione di giocare un Mondiale in Italia.

C’era una volta l’Italia della pallavolo impegnata in un campionato del mondo in casa. Era una squadra che ancora non aveva vinto nulla e che con la leggerezza di chi non ha pronostici da rispettare riuscì nell’impresa di un argento storico e di un altrettanto memorabile espansione del volley. Era il 1978 e all’Eur il Gabbiano d’Argento accese l’entusiasmo per uno sport mai così in evidenza, prima di quelle giornate magiche. In regia c’era Pupo Dall’Olio, che dalla pallavolo non si è più allontanato, tra campo e panchina, con l’ultima esperienza della scorsa stagione a Reggio Emilia, in A2. «Eravamo tra il 15° e il 20° posto del ranking mondiale – ricorda Pupo -, nessuno si immaginava un finale del genere, con l’argento mondiale, nemmeno noi. Andammo in tv e al di là del seguito straordinario a Roma, giocammo all’Eur, e mai prima c’era capitato in un posto così grande, ci seguirono davvero in tanti. Ancora oggi mi capita di incontrare persone che mi dicono: io c’ero. Dopo quei Mondiali aumentarono le iscrizioni dei giovani, si vedevano i bambini giocare a pallavolo nei cortili, ci fu un risveglio generale. Mi piace pensare che abbiamo buttato il seme per la Generazione dei Fenomeni».

Dicono gli azzurri che il pubblico sta giocando (bene) un ruolo cruciale. «E’ un’emozione l’abbiamo vissuta anche noi. Quell’esperienza mi ha lasciato una sensazione che non ho più provato dopo».

Ce la racconta? «Gli spogliatoi erano nella pancia dell’Eur, sotto i gradoni. Alla vigilia delle partite dei quarti, semifinale e finali, andavi nello spogliatoio e sentivi il frastuono del pubblico. Uscivi per andare in campo e l’impianto era così grande che ci impiegavi minuti per arrivarci. Ti avvicinavi alla porta d’ingresso che sembrava una palla di luce, sempre più grande. Quei 50, 60 metri finali mi caricavano a mille, davvero facevano sentire non giocatori, ma gladiatori che entrano in un’arena. Un’atmosfera emotiva unica. E noi abbiamo centrato prestazioni che fino a quel momento non ci erano state abituali, soprattutto per continuità».

E’ per questo che ancora oggi è nella pallavolo, una passione che non finisce mai? «Onestamente non so perché, forse è perché provi sensazioni forti, prima da giocatore e poi da allenatore, e perché riesci a esprimere così la tua personalità. E perché questa adrenalina che ti prende, diventa irrinunciabile. Per chi ha avuto la fortuna di poter fare con passione quello che ama, è un grandissimo privilegio. Lo ricordo spesso ai miei giocatori, soprattutto ai più giovani».

Questo Mondiale in Italia che cosa può portare alla pallavolo? «Maggior interesse delle aziende per uno sport che ha ottime basi: è un ambiente sano, per famiglie, si presta alla promozione di qualsiasi cosa. Può essere l’occasione per entrare di più nelle scuole, per promuovere di più anche il beach volley . La nazionale è il nostro veicolo più importante, senza dimenticare che abbiamo un campionato straordinario, dove stanno tornando tanti campioni, con risultati aperti in tante partite».

Che cosa le piace di questa Italia? «Il fatto che tutti siano focalizzati sulla performance della squadra. Non fanno i cavalli sciolti e da questo punto di vista mi pare che il c.t. Blengini abbia lavorato meglio che in passato. I giocatori sono concatenati, si vede anche nelle pause, o quando affrontano momenti difficili. Si vede che hanno un obiettivo comune e ben chiaro».

Come nel 1978? «Noi non ci potevamo immaginare obiettivi così alti, ci siamo scoperti strada facendo. Questa squadra sa di poter arrivare a medaglia. Forse sarà per la Nations League andata male, ma non danno niente per scontato, cercano ogni punto come se volessero stupire se stessi e il movimento».

Le sue favorite? «Di sicuro l’Italia, poi Stati Uniti, Serbia, Polonia. Una delle più pericolose è la Russia, ha un potenziale straordinario, ma non sempre costante».

Da ex regista, che ne dice di Giannelli? «E’ da qualche anno che, per l’età che ha, sta facendo cose eccezionali. Al di là del lato tecnico, ha dimostrato di saper gestire la squadra dal punto di vista tattico ed emotivo. E’ giustissimo parlare di lui, rendergli merito, senza dimenticare il cuore del suo ruolo: essere al servizio della squadra, dei suoi compagni, più che della voglia di esibirsi in colpi a effetto. So che non corre il rischio di montarsi la testa, dalle sue dichiarazioni si capisce, ma in passato ho visto giocatori perdersi per eccesso di autostima».

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