L’avventura di Santi Orduna, infiltrato del volley per amore del River Plate

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Di Stefano Benzi

Una premessa che è fondamentale prima di leggere il resto: oltre alla pallavolo amo tutto lo sport e ho lavorato una vita nel mondo del calcio, quasi trentacinque anni. Questo mi ha portato a interessarmi sempre di più alle squadre straniere, delle quali mi sono innamorato nei miei molti viaggi, rispetto a quelle italiane per le quali la passione si è spenta con la professione mano a mano che conoscevo il dietro le quinte.
Ho una passione feroce per l’Arsenal, il Flamengo e soprattutto per il Boca Juniors. Essendo genovese credo sia normale: le due squadre argentine di maggior successo nacquero entrambe alla Boca da genovesi e genoani. Da una costola del Boca Juniors nacque il River che fu costretto a lasciare il quartiere dopo aver perso una sfida con la rivale trasferendosi verso l’interno della città.

Tra Boca e River, xeneizes (una curiosità, il nome doveva essere zeneixes, in genovese corretto, ma uscì sbagliato e rimase così) e millionarios, la rivalità è feroce. E da quello che si è visto immediatamente prima della partita di ritorno che assegnava la Copa Libertadores a Buenos Aires anche piuttosto malsana. Le prese in giro sono infinite e durano tutto l’anno: ogni tanto il sangue argentino va alla testa e la discussione finisce in rissa e in caserma. In tutto il mondo non c’è niente di simile. Lo abbiamo vissuto da vicino quando la gara rinviata a Buenos Aires si è spostata a Madrid facendo il tutto esaurito e reclutando un pubblico televisivo immenso.

In mezzo alla gradinata alle spalle di una delle porte del Bernabeu – “purtroppo non quella dove sono stati segnati tutti i gol” – c’era anche Santi Orduna, alzatore del Vero Volley Monza e tifoso sfegatato del River Plate. Quando si è concretizzata la possibilità più unica che rara che il Clasico si giocasse di Europa, Santi si è organizzato: “C’era l’impegno di campionato a Bari con Castellana ma da lì potevo andare prima a Roma e poi a Madrid – racconta Santi – vedermi la partita e tornare a Monza sfruttando il mio giorno libero. Ne ho parlato con la società, hanno capito che per me era una cosa importante e mi hanno lasciato andare…”.

Non prima di aver vinto la partita con Castellana: “Quando eravamo sotto 2-0 ero arrabbiato, non volevo perdere l’aereo che era alle 21.30 ma soprattutto non volevo perdere la partita; alla fine l’abbiamo portata a casa anche se io alle 20.30 ero ancora in campo e l’aereo l’ho preso al volo…” .
A Madrid tanti argentini provenienti da ogni parte d’Europa, diversi appassionati – anche italiani – e un clima completamente diverso rispetto a quello drammatico visto tra le strade di Buenos Aires: “Ho incontrato diversi amici, sia del River che del Boca e ci siamo ritrovati tutti d’accordo sul fatto che quanto era accaduto, con i gravi incidenti prima della partita, era stato un male per l’Argentina ma anche che senza un’occasione del genere non saremmo stati lì a vedere una delle partite più importanti della storia della nostra squadra. Tante foto, qualche sfottò, siamo andati tutti insieme allo stadio per dividerci solo prima di raggiungere le aree destinate alla nostra tifoseria e tutto è andato assolutamente liscio”.

Boca in vantaggio: “Lì me la sono davvero fatta sotto – ammette Santi – ho pensato che potessimo perdere anche perché la partita era molto dura ma giocata male. Anche sul palo del Boca quando a pochi secondi dalla fine eravamo in vantaggio 2-1 e in superiorità numerica ho temuto il peggio, poi invece è arrivato il contropiede di Martinez che per la verità non ho nemmeno visto. Si è capito subito che sarebbe andato fino in porta e mi sono ritrovato abbracciato a gente mai vista. Quando sono tornato in albergo avevo l’adrenalina alle stelle, ho guardato e riguardato le immagini in televisione e ho rivissuto emozioni che resteranno indelebili. È stato il mio primo Clasico, tifo River da quando avevo cinque, sei anni e sono andato spesso al Monumental ma non avevo mai visto il derby contro il Boca. Ora sono in credito per alcuni anni”.

Immediato il bombardamento di sfottò e di foto con amici/nemici dell’altra fazione, che vivono in Europa e fuori: “Quello che si vive tra tifosi del River e del Boca non si può spiegare né raccontare – dice correttamente Santiago – si può solo vivere e condividere. Loro ci hanno massacrato dopo la nostra retrocessione di sei anni fa, subita proprio mentre loro vincevano e oggi siamo noi a festeggiare e a mandarli a casa in lacrime. È lo sport, è la competizione: se c’è il rispetto reciproco uno sfottò non fa male, fa parte del gioco”.

Come si sceglie da che parte stare? “Sono nato in una famiglia divisa in due, da una parte erano tifosi sfegatati del River e dall’altra del Boca. Finché sei piccolo ‘la racconti’ e a seconda della casa che visiti ti schieri dalla parte del parente. Ma quando devi fare la scelta esce il cuore: nel mio caso fu un parente, molto vicino, che mi portò allo stadio a vedere il River per la prima volta. Mi innamorai. Non mi è passata e non potrà passarmi mai”.

A Genova posso garantire che ci sono figlie che non presentano il fidanzato al padre se porta i colori sbagliati. I rapporti possono restare interrotti per lungo tempo: tra genoani e sampdoriani la rivalità è feroce e si vive 365 giorni all’anno, senza interruzione. Mio padre fu determinante nel farmi appassionare al calcio: lui, sampdoriano sfegatato come mio fratello, mi portò a vedere un derby che il Genoa, due volte in vantaggio, perse. Mi innamorai anche io. Ma non della squadra che mio padre avrebbe voluto. Mio padre mi perdonò quasi subito, anche perché – secondo me – lo attirava la possibilità di andare allo stadio tutte le domeniche.

Con Santi si potrebbe parlare di calcio per ore: chiacchieriamo dei suoi miti, giocatori come Francescoli e Ortega (uno dei giocatori più forti che abbia mai visto in vita mia, anche se matto come un cavallo). Io gli propongo i miei ricordi: Palermo, Palacio, Tevez e chiudiamo la chiacchierata con una promessa. “Andiamo a vederci una partita insieme…”. Non sarà il Superclasico ma si può fare.

In fondo Orduna è un caro nemico… dannato riverplatense…

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Le storie di Stefano Benzi

Di Stefano Benzi

Diciamo la verità… quando quella lontana estate del 1984 si diceva “c’è la pallavolo, dove la andiamo a vedere”? Non eravamo molto consapevoli: un po’ perché quella non era ancora la generazione dei fenomeni che sarebbe arrivata di lì a qualche anno e un po’ perché eravamo ancora ubriachi del Mondiale di calcio vinto nel 1982. La pallavolo fino a quel momento era un parente povero e poco considerato: i canali televisivi che potevano trasmettere sport erano esclusivamente quelli della Rai. E dunque due… e mezzo: Il resto lo scoprivi alla spicciolata un po’ come il tennis o il nuoto. Eravamo impazziti per Novella Calligaris o per Adriano Panatta quando arrivò alla finale del Roland Garros. Ma il concetto di virata, di rovescio e di slide non erano per tutti. Per non parlare della vela: una volta ogni tot di anni ci ricordavamo di essere un popolo di navigatori per via di Azzurra, Luna Rossa o del Moro e si faceva la notte in bianco. Ma il senso di “cazza la randa” o di “bolina” non ci è ancora del tutto chiaro.

Per la squadra di pallavolo del 1984 non eravamo preparati: chi se l’aspettava una prodezza del genere. All’epoca lavoravo già e ricordo perfettamente uno dei miei capi – disperato – alle prese con un pezzo e un titolo sbraitava da infarto: “Come diavolo si dice – urlava in redazione – schiacciata o smash?”

A Los Angeles uno dei supertestimonial era Roberto Duran, straordinario pugile panamense che viveva in California e che era cresciuto al Chorillo, nella favela della Casa de Pedra. Da qui il suo nome: “Mano de Pedra”. Nel 1984 era all’apice: si era frantumato una mano combattendo contro Marvin Hagler (un vero animale da ring) dunque alle Olimpiadi faceva il personaggio e presenziava a tutte le gare più interessanti. Vedendo la squadra azzurra contro il Canada Duran disse… “Esta sì es una mano de pedra….”

La mano di pietra era quello di Franco Bertoli: i giocatori del Canada confessarono che quando Dall’Olio apriva lo schema su di lui la gara era a chi si spostava prima da una parte per evitare la botta. Era la generazione dei geometri: mi piace chiamarla così perché erano giocatori straordinari, certamente non ricchi, ma di feroce determinazione e di grande coraggio. Furono loro a porre basi di quanto sarebbe arrivato dopo.

Ottennero uno storico terzo posto, la prima medaglia olimpica della pallavolo italiana dopo una semifinale persa e giocata a testa alta contro il Brasile. Bertoli ha usato il granito per vincere – vado a memoria – anche sette titoli italiani, due coppe campioni e mi pare cinque Coppa Italia. Poi ha fatto l’allenatore, ricordo delle belle interviste con lui a Roma nel 2000, il dirigente e l’amministratore pubblico. Appassionato di statistica, è un grande studioso di numerologia. Un uomo simbolo cui hanno fatto una cattiveria: qualcuno si è introdotto in casa sua e gli ha svaligiato l’appartamento portandosi via anche la medaglia di bronzo di Los Angeles 1984. Anche se fosse d’oro il suo valore sarebbe davvero minimo: le medaglie sono placcate e simboliche, hanno un peso solo per chi le ha vinte e per chi eventualmente le colleziona.

Cari signori ladri, a Natale, siamo tutti più buoni… cogliete una buona occasione per fare una bella figura. Fate un pacchettino, mi raccomando con tanta bella carta per evitare gli urti, e spedite il tutto a Franco Bertoli, presso C.O.N.I. Largo Giulio Onesti 1 Roma. Là sapranno come recapitarla a una mano di pietra che per vostra fortuna non avete trovato in casa mentre stavate facendo pulizia. Perché Bertoli ha sessant’anni ma se li porta alla grande; è di Udine – gran testone – è 1.92 per novanta chili di muscoli e le mani di granito le ha ancora. Io uno così lo vorrei avere tutta la vita dalla mia parte.

E poi, che ve ne fate di una medaglia che non meritate?