Il pallavolista come influencer? Funziona, ma non per tutti i brand

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Di Redazione

I giocatori di pallavolo possono diventare influencer in grado di modificare le abitudini d’acquisto dei loro fan e promuovere prodotti o servizi attraverso i social network? Un tema nient’affatto scontato, anche perché il settore è ancora largamente inesplorato. Ad affrontarlo ci ha pensato Arianna Valmori, studentessa della School of Management del Politecnico di Milano, che lo scorso 29 aprile si è laureata con il massimo dei voti in Management Engineering, specializzazione in Digital Business and Market Innovation, con la tesi dal titolo “The volleyball athlete as influencer: empirical insights from a Cross-Brand study“.

Il lavoro, realizzato in collaborazione con Volley NEWS e con il contributo dei lettori che hanno accettato di partecipare alla survey online collegata alle tesi, ha preso in esame il potenziale impatto sulle abitudini di consumo di un atleta molto conosciuto e amato dal pubblico: l’ex azzurro Simone Buti, oggi Brand Ambassador del Consorzio Vero Volley. La ricerca ha coinvolto un campione di 210 rispondenti, in prevalenza uomini (61%) e provenienti soprattutto dalle regioni del Nord, concentrati per la maggior parte nella fascia di età dai 23 ai 38 anni (49%).

Venendo alla domanda iniziale, la risposta è senza dubbio sì: il pallavolista nel ruolo di influencer “funziona”, ma con qualche distinguo. Innanzitutto, la ricerca rileva che il testimonial (in questo caso, Buti) è percepito positivamente in tutti e tre i campi che caratterizzano gli “opinion leader” nel settore sportivo: attrattività (è cioè ritenuto attraente e di bella presenza), interazione para sociale (viene visto come una persona “amica” e vicina al suo pubblico), credibilità (è considerato onesto e affidabile). Di queste caratteristiche, però, è soltanto l’attrattività – influenzata peraltro anche dalle altre due variabili – a impattare positivamente sull’attitudine nei confronti del brand e quindi sul consumo.

Non è tutto. La ricerca ha preso in esame quattro tipi di marche per valutare l’impatto dell’influencer: due legate al mondo dello sport e due avulse da esso, e in ciascuno di questi gruppi una funzionale (cioè necessario per soddisfare bisogni fondamentali) e una edonistica (cioè collegato all’idea di piacere). In base a questa analisi, avere un atleta come influencer funziona soprattutto per i prodotti edonistici, che appartengano al settore sportivo o meno: il fan di un giocatore di pallavolo, insomma, si sente più attratto verso un brand percepito come “divertente” e piacevole, se a “guidarlo” è il suo idolo. L’attrazione verso i prodotti funzionali sembra meno legata alla figura del testimonial; per i brand sportivi, invece, l’impatto dell’influencer è comunque positivo, ma a spiegarlo sono altre variabili non comprese nell’analisi, come lo stile di vita o l’affinità.

Queste considerazioni non sono significativamente influenzate dalle variabili socio-demografiche, quindi valgono per tutto il campione analizzato a prescindere dall’età, dal sesso, dal titolo di studio e dalla provenienza geografica. Significative sono, invece, l’attitudine multicanale e la propensione all’utilizzo di funzionalità social come lo Swipe Up: chi è abituato a utilizzare più strumenti tecnologici e ha esperienza nel loro uso si lascia coinvolgere più volentieri da un influencer conosciuto.

La conclusione? Le aziende possono contare su giocatori e giocatrici per promuovere i propri brand, soprattutto se legati a consumi edonistici o al settore sportivo. E gli atleti che hanno una buona base di follower sui social network possono sperimentare una nuova carriera…

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