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Hit Parade: brani per rilanci e riconferme, la colonna sonora di Black Lives Matter

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Di Stefano Benzi

In attesa che la stagione si chiuda definitivamente e che si facciano i conti con promozioni, retrocessioni e probabilmente anche rinunce e fusioni – il periodo è quello che è – fioccano notizie di mercato tra partenze, addii e riconferme. Di partenze ci siamo occupati spesso: di riconferme non molto. Ne prendiamo due a pretesto: quella di Musso a Busto Arsizio e quella di Piazza a Milano. Due destini simili se ci si pensa: squadre che sono arrivate a un passo dalla grande impresa e cui resta un retrogusto amaro in bocca. Milano è fuori dalle coppe pur avendone vinta una. Busto ha accarezzato sogni di gloria battendo il Vakifbank e dopo un girone di ritorno meraviglioso torna sulla terra. Ma il bello è che il futuro pone nuove sfide, e traguardi ambiziosi.

C’è una canzone che più di ogni altra spinge ad andare al di là, ad andare oltre. Si intitola “Higher Ground” e Steve Wonder la compose nel 1973 per il suo album “Innervisions”: un brano innovativo e per certi versi rivoluzionario nel quale Wonder, un tastierista, voleva assolutamente un’atmosfera rock, che suonasse come un disco pieno zeppo di chitarre. Anche se lui lo aveva registrato con un organo e un clavinet una tastiera elettrica, non ancora elettronica, che distorse con un effetto wah wah, tipico delle chitarre. Wonder registrò tutto il disco completamente da solo: suonando tutti gli strumenti.

Ne uscì un brano stratosferico, di intensità estremamente aggressiva. É una canzone fortemente antimilitarista, che parla di impegno e dedizione… “Continuerò a provare finché non raggiungerò il mio punto più alto, fino a quando raggiungerò un piano più alto. E nessuno mi tirerà giù anche se ci proveranno sicuramente…”

Una seconda versione di questo brano fu registrata dai Red Hot Chili Peppers per l’album “Mother’s Milk”: un brano furioso, ancora più veloce e dirompente dell’originale che si chiude con un rabbioso outro strumentale.

Per la cronaca e i curiosi: nella scaletta del riscaldamento di Usain Bolt questa canzone è la penultima del suo riscaldamento, del suo training autogeno.

Questa una versione della canzone originale di Stevie Wonder registrata dal vivo durante il tour europeo del 1974.

https://youtu.be/XV1DK9tSHio

Qui il brano dei Red Hot Chili Pepper, più essenziale e ruvida, ma decisamente più aggressiva

https://youtu.be/HZySqMlEuSQ

Nel corso di questa stagione si è parlato moltissimo di Black Lives Matter, il movimento che ha seguito la drammatica morte di George Floyd, il manifestante di colore ucciso da un poliziotto durante un arresto a Minneapolis lo scorso anno. Un episodio che in un anno tremendo, di lutti, divisioni e paura, ha scatenato tensioni che non si sono ancora completamente sopite. Ci sono stati scontri in tutti gli Stati Uniti, feriti, altre vittime.

Black Lives Matter è un movimento che ha al suo vertice sportivi di altissimo livello, come il campione del mondo di Formula 1 Lewis Hamilton, il fuoriclasse del basket NBA LeBron James, il mito del pugilato Mike Tyson. Anche nella pallavolo sono moltissimi i campioni che hanno alzato la voce per una presa di posizione che non è di rottura, ma di ricostruzione. Tra queste Khalia Lanier, schiacciatrice di Volley Bergamo che ha documentato il suo impegno con alcuni post sui social parlandone poi più ampiamente in una intervista. Di diritti e del movimento Black Lives Matter ha parlato anche Haleigh Washington; Miriam Sylla ha sottolineato la sua adesione indossando a lungo questa stagione il braccialetto ‘Equality’. La questione è ancora apertissima: e lo sport resta un ambiente protetto: nel quale si può continuare a parlare.

Tra le tante canzoni di protesta, alcune delle quali molto aggressive che possono anche suonare in netto contrasto con la logica non violenta del movimento, ho scelto alcuni brani che sono completamente diversi, ma che hanno la stessa radice. I Simple Minds sono uno dei gruppi rock scozzesi per eccellenza. Li scoprì Peter Gabriel che li volle come gruppo di apertura del proprio tour del 1978. L’ex cantante dei Genesis era già molto impegnato nei diritti delle comunità afroamericane e aveva scritto la splendida “Biko”, una canzone dedicata alla memoria di Steven Biko, un attivista antiapartheid sudafricano ucciso in modo sconcertante nel 1977. Arrestato durante una manifestazione fu picchiato a sangue e abbandonato morente in cella. Le cause della sua morte furono chiarite: ma le responsabilità in un Sudafrica ancora in piena apartheid non vennero mai definite. Non ci furono arresti, non ci furono condanne. “Biko”, oggi come allora chiude quasi tutti i concerti di Peter Gabriel in modo molto teatrale ed evocativo. Gabriel a uno a uno congeda i suoi musicisti lasciando che sia il pubblico a cantare il brano. Fino a quando non spegne la batteria elettronica e si dirige dietro le quinte. I suoi fan, spesso, abbandonano l’arena continuando a cantare fino a quando non arrivano in strada.

I Simple Minds, folgorati dalla teatralità e dalla forza del messaggio di Gabriel, parteciparono a tutte le iniziative e i concerti del cantante: dal tour di Artists United Againts Apartheid, che diede vita al disco “Sun City” ai concerti celebrativi per la liberazione di Nelson Mandela. Cui Jim Kerr, cantante dei Simple Minds, dedicò una delle sue canzoni più belle e struggenti, “Mandela Day”, brano celebrativo di una vita straordinaria e di un lieto fine glorioso.

Tra le tante voci autorevoli del movimento Black Lives Matter ci sono i Living Colour, band non molto conosciuta nel nostro paese che propone un rock durissimo, tecnico, veloce, rabbioso con sonorità acutissime e dirompenti. Ci sono due brani dei Living Colour che trasudano impegno e chiedono giustizia sociale: “Cult of Personality” è un atto d’accusa nei confronti di tutte le dittature: non solo quelle politiche, ma anche quelle dei media, delle aziende globali, del guadagno che mangia l’onestà intellettuale e a libertà di pensiero. I Living Colour dicono, e non sbagliano, che il terzo millennio ha reso anche i bianchi schiavi: di un sistema e di un modo sbagliato di pensare la propria esistenza, in funzione di produzione e consumo.

“Type”, se possibile, è ancora più violenta. Logotipi, stereotipi, prodotto di una guerra di religione (qualunque essa sia) e di una assurda battaglia per il potere degli altri. I Living Colour scrivono una rabbiosa dichiarazione di guerra a chi si impossessa del debito della working class per “comprare l’anima di chi lavora”: il testo del brano è durissimo… “Siamo figli del cemento e dell’acciaio, viviamo dove la verità viene nascosta. Ma questo è il momento in cui la menzogna viene rivelata. Attento, perché dove tutto è possibile, niente è reale…Tutto quello che fai, ti verrà restituito…”. Un calcio alla bocca dello stomaco del cosiddetto sogno americano.

Anno 2014, Peter Gabriel chiude il suo concerto alla Wembley Arena con “Biko” rievocando i suoi concerti del 1978. A uno a uno tutti i suoi musicisti lasciano il palco…

La deliziosa versione di “Mandela Day” eseguita dai Simple Minds davanti a 55mila persone ad Hyde Park, Londra, per i 90 anni di Nelson Mandela, che era presente all’evento.

Una versione rabbiosa di “Cult of Personality” eseguita dai Living Colour al festival danese di Roskilde.

“Type” eseguita dal vivo a Parigi nel 2007 in una versione velocissima, di aggressività dirompente. Il brano sembra calmarsi con una lunga jam session reggae per poi esplodere nel finale.

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