Quando all’estero cresce Plak… e in Italia non riesci a diventare Nessuno

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Di Stefano Benzi

Sono all’estero, in Olanda in uno dei miei tanti viaggi cui cerco di dedicarmi non appena ho un momento libero: parto con pochi programmi che di solito sono scanditi da concerti o eventi sportivi. Mi spiego: non vado a Londra per caso, ma perché l’Arsenal gioca contro il Chelsea e ho avuto la fortuna di procurarmi un biglietto. Poi attraverso le biglietterie online scopro che ci sono quattro o cinque concerti interessanti e magari un’altra partita minore. La microvacanza fai da te è servita. Ogni anno vado due-tre volte a Londra e almeno una volta in Scozia, da almeno trent’anni. Poi aggiungo altre cose, mordi e fuggi. Sono appena tornato da Parigi dove ho visto un emozionante concerto di Phil Collins; l’11 agosto vado a Berlino a vedere P!nk e da lì mi sposto a Budapest per andare al festival rock di Sziget dove l’appuntamento è con i Biffy Clyro, una delle band che amo di più in questi ultimi anni. Comunque…

Quel giorno ero in Olanda per vedere un festival punk: c’erano i miei adorati Killing Joke e un gruppo americano molto duro e violento, i Dead Kennedys: era il 2010 e, in attesa degli show, vado a vedere una partita di pallavolo femminile ad Amsterdam, la nazionale giovanile orange gioca un torneo amichevole. Guardo la scheda delle giocatrici, ne conosco appena un paio: dalla panchina a metà del secondo set si alza una ragazza statuaria e bellissima, con dei capelli neri lunghi e crespi che sembravano di zucchero filato. Controllo, ha 14 anni è molto sotto età rispetto alle compagne: è stato amore a prima vista. Sistemata in posto quattro scaraventa i primi tre palloni a velocità siderale nel campo avversario. Bravissima l’alzatrice a metterle i palloni sul punto di massima estensione che scopro essere 3.25. La ragazzina schianta a terra una quindicina di palloni entrando e uscendo dal campo prima che la gara finisca: poi scopro che quello era il suo esordio, che è figlia di una pallavolista e di un campione di kickboxing del Suriname. Guardo il cognome, Plak…. Ma sì, Kenneth Plak… l’ho anche visto combattere nel circuito Glory, è stato campione del mondo. Il padre sembrava scolpito nell’ebano, un fisico mostruoso e un’elasticità e velocità di calcio letale.

A fine gara mi trattengo e cerco di capirne di più: la nazionale olandese non ha mai avuto una giocatrice di radice non europea, Celeste è la prima. Il CT della nazionale gira la palla al collega della nazionale maggiore: “Ha mezzi fisici impressionanti io non posso fare molto per lei e non voglio nemmeno che la squadra giovanile dipenda dalla sua forza, è già matura per andare oltre”.

Celeste Plak che di lì a poco arriverà in Italia – a Bergamo – dopo aver vinto il suo primo e unico titolo nazionale olandese con l’Appledorn, l’anno successivo fa il suo esordio a sedici anni in nazionale. La rivedo in occasione di una gara di World League e ci chiacchiero pochi minuti: tanto è cattiva, matura e aggressiva in campo quanto è mite, serena e del tutto adeguata alla sua adolescenza fuori dal campo. Mi racconta di papà e mamma e della sua crescente passione per la pallavolo, mi confida di non avere un fidanzato (“Come farei? Troppi impegni…”); mi rivela che la persona più importante per lei è suo fratello minore, Fabian, anche lui buon giocatore di volley (oggi già in nazionale da un paio d’anni e titolare dell’Arhnem). È stato lui a insegnargli come e da dove saltare per raggiungere il punto di massima estensione che nel frattempo è salito a 3.34. Fabian viaggia sempre con sua sorella: in una foto che Celeste infila prima di ogni partita nel suo borsone. Celeste quest’anno ha vinto il titolo nazionale italiano con Novara e continua a migliorare forte di mezzi fisici impressionanti (46.5 di scarpe e punto di massima estensione che si sta alzando decisamente verso i 3.40). Celeste continua a ricordarmi la ragazzina di qualche anno fa quando mi dice che il suo grosso problema è ancora la cioccolata, per la quale ha una sorta di dipendenza, e che non ha imparato ancora abbastanza: “Quest’anno ho alternato partite discrete ad altre modeste, abbiamo vinto il titolo ed è una grande soddisfazione ma io so di potere dare più di quello che ho dato”. Tant’è vero che Novara se la tiene stretta. Ma come nasce un fenomeno del genere? È davvero solo una questione di DNA? Io sostengo di no.

Dove ha studiato Celeste Plak in Olanda? In una scuola speciale con un programma destinato a chi punta a una carriera da atleta che offre corsi perfezionati e strutture di eccellenza sia che tu voglia fare nuoto che atletica, ginnastica, basket o volley. Le squadre di calcio sono due giri avanti: nella piccola Olanda tutte le squadre professionistiche – e dunque non solo le ricche Ajax o PSV ma anche le piccole come l’Arnhem, il Groningen, il Twente o il Vitesse -, le scuole le hanno create all’interno della propria academy: sono istituti parificati dove i ragazzi, indipendentemente da quello che sarà il loro destino sportivo, prenderanno un diploma concreto con due lingue e abilitazione allo studio internazionale. Quando Celeste è arrivata in Italia parlava un inglese perfetto e in pochissimo tempo ha cominciato a esprimersi in un ottimo italiano.

Celeste poi, per non lasciare nulla al caso, è entrata allo Johan Cruyff Institute, un corso universitario di alto livello in Sport Management, Sport Marketing, Football Business e Coaching. Di università come questa, che probabilmente è la migliore, in Olanda ce ne sono almeno una dozzina.

Vedo che in Italia si discute sul futuro che stiamo costruendo per i nostri ragazzi: io purtroppo non sono ottimista. Perché quello che offriamo è una scuola di basso livello che non solo non insegna l’inglese ma in qualche caso ti fa dimenticare anche l’italiano. I nostri ragazzi forse si sono impigriti, forse abbiamo regalato troppi telefonini e pochi libri, forse quello che gli offriamo attraverso la televisione – e faccio una severissima autocritica in quanto addetto ai lavori – sono modelli sbagliati. Oggi per diventare qualcuno non dovresti sperare in un talent show o nella chiamata del Grande Fratello, per trascorrere due mesi stravaccato su un divano…

Ma devi farti il “mazzo” e devi aprire dei gran libri. Certo, avessimo anche strutture scolastiche adeguate e programmi di un qualche interesse sarebbe più semplice. L’altro giorno un compagno di classe di mio figlio mi ha detto… “La scuola di oggi per uno studente è un po’ come finire all’ospedale… devi sperare che ti capiti il medico giusto: noi dobbiamo sperare che ci sia un insegnante che ti coinvolga e incuriosisca”.

Non ho saputo ribattere.

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Le storie di Stefano Benzi

Di Stefano Benzi

Diciamo la verità… quando quella lontana estate del 1984 si diceva “c’è la pallavolo, dove la andiamo a vedere”? Non eravamo molto consapevoli: un po’ perché quella non era ancora la generazione dei fenomeni che sarebbe arrivata di lì a qualche anno e un po’ perché eravamo ancora ubriachi del Mondiale di calcio vinto nel 1982. La pallavolo fino a quel momento era un parente povero e poco considerato: i canali televisivi che potevano trasmettere sport erano esclusivamente quelli della Rai. E dunque due… e mezzo: Il resto lo scoprivi alla spicciolata un po’ come il tennis o il nuoto. Eravamo impazziti per Novella Calligaris o per Adriano Panatta quando arrivò alla finale del Roland Garros. Ma il concetto di virata, di rovescio e di slide non erano per tutti. Per non parlare della vela: una volta ogni tot di anni ci ricordavamo di essere un popolo di navigatori per via di Azzurra, Luna Rossa o del Moro e si faceva la notte in bianco. Ma il senso di “cazza la randa” o di “bolina” non ci è ancora del tutto chiaro.

Per la squadra di pallavolo del 1984 non eravamo preparati: chi se l’aspettava una prodezza del genere. All’epoca lavoravo già e ricordo perfettamente uno dei miei capi – disperato – alle prese con un pezzo e un titolo sbraitava da infarto: “Come diavolo si dice – urlava in redazione – schiacciata o smash?”

A Los Angeles uno dei supertestimonial era Roberto Duran, straordinario pugile panamense che viveva in California e che era cresciuto al Chorillo, nella favela della Casa de Pedra. Da qui il suo nome: “Mano de Pedra”. Nel 1984 era all’apice: si era frantumato una mano combattendo contro Marvin Hagler (un vero animale da ring) dunque alle Olimpiadi faceva il personaggio e presenziava a tutte le gare più interessanti. Vedendo la squadra azzurra contro il Canada Duran disse… “Esta sì es una mano de pedra….”

La mano di pietra era quello di Franco Bertoli: i giocatori del Canada confessarono che quando Dall’Olio apriva lo schema su di lui la gara era a chi si spostava prima da una parte per evitare la botta. Era la generazione dei geometri: mi piace chiamarla così perché erano giocatori straordinari, certamente non ricchi, ma di feroce determinazione e di grande coraggio. Furono loro a porre basi di quanto sarebbe arrivato dopo.

Ottennero uno storico terzo posto, la prima medaglia olimpica della pallavolo italiana dopo una semifinale persa e giocata a testa alta contro il Brasile. Bertoli ha usato il granito per vincere – vado a memoria – anche sette titoli italiani, due coppe campioni e mi pare cinque Coppa Italia. Poi ha fatto l’allenatore, ricordo delle belle interviste con lui a Roma nel 2000, il dirigente e l’amministratore pubblico. Appassionato di statistica, è un grande studioso di numerologia. Un uomo simbolo cui hanno fatto una cattiveria: qualcuno si è introdotto in casa sua e gli ha svaligiato l’appartamento portandosi via anche la medaglia di bronzo di Los Angeles 1984. Anche se fosse d’oro il suo valore sarebbe davvero minimo: le medaglie sono placcate e simboliche, hanno un peso solo per chi le ha vinte e per chi eventualmente le colleziona.

Cari signori ladri, a Natale, siamo tutti più buoni… cogliete una buona occasione per fare una bella figura. Fate un pacchettino, mi raccomando con tanta bella carta per evitare gli urti, e spedite il tutto a Franco Bertoli, presso C.O.N.I. Largo Giulio Onesti 1 Roma. Là sapranno come recapitarla a una mano di pietra che per vostra fortuna non avete trovato in casa mentre stavate facendo pulizia. Perché Bertoli ha sessant’anni ma se li porta alla grande; è di Udine – gran testone – è 1.92 per novanta chili di muscoli e le mani di granito le ha ancora. Io uno così lo vorrei avere tutta la vita dalla mia parte.

E poi, che ve ne fate di una medaglia che non meritate?