Sarah van Aalen: “Il VakifBank è il posto ideale per diventare una top player”

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In un dialogo del film “L’avvocato del diavolo” – thriller giudiziario uscito nel 1997 – John Milton (interpretato da Al Pacino) dice a Kevin Lomax (Keanu Reeves) di essere un grande avvocato perché “la gente non mi vede mai arrivare“. È una descrizione che potrebbe aderire anche alla figura e alla storia di Sarah van Aalen. Si tratta di una cosa strana, a dire il vero: tutti si aspetterebbero che una giocatrice che approda al VakifBank Istanbul sia una predestinata esplosa da teenager che ha saputo mantenere le promesse. Invece, ben pochi hanno visto arrivare questa palleggiatrice classe 2000, che si è imposta ai massimi livelli nonostante il suo nome non fosse noto al grande pubblico.

Come se non bastasse la sua esplosione è stata allestita in tempi brevi, senza segnali premonitori. Fino al 2019 giocava nella sua Olanda; successivamente ha scoperto il campionato tedesco con l’USC Münster e si è letteralmente presa la scena nelle due stagioni con la maglia dell’SC Potsdam, conquistando anche un posto nella nazionale orange. Così, tutto d’un fiato.

Dopo l’esordio vincente nella Supercoppa di Turchia, van Aalen ha parlato del suo percorso pallavolistico e della sua nuova avventura in esclusiva ai microfoni di Volley News.

Sarah Van Aalen VakifBank Istanbul
Foto VakifBank Spor Kulubu

Sarah, innanzitutto raccontaci cosa vuol dire essere una giocatrice del VakifBank. Come hai reagito quando ti hanno detto che uno dei migliori club al mondo voleva ingaggiarti?

Sono estremamente onorata di far parte di questa squadra e famiglia. Ero entusiasta quando ho sentito che volevano ingaggiarmi. All’inizio non riuscivo nemmeno a crederci, ma piano piano ho realizzato che avrei giocato per il VakifBank e questo mi ha riempito di orgoglio e gioia“.

Come hai capito che il VakifBank era il club giusto per te in questo momento della tua carriera?

Il VakifBank è un club che ti garantisce le condizioni, lo staff e le strutture migliori affinché tu possa dare il massimo, quindi penso che sia il posto ideale per qualsiasi giocatrice che vuole diventare la più forte al mondo. Per me è senza dubbio un grande salto passare dalla Germania a quello che probabilmente è il campionato più competitivo in assoluto, ma ritengo che questa fosse un’opportunità da cogliere al volo e sono felice di averla ricevuta“.

Con quale mentalità ti sei presentata in un club così importante? Punti al posto da titolare?

Penso che l’obiettivo di ogni pallavolista sia di giocare il più possibile; perciò, è sicuramente qualcosa a cui punto anch’io. Allo stesso tempo, però, sono consapevole di essere giovane e di non conoscere ancora bene il campionato turco; quindi, dovrò essere un po’ paziente per ambientarmi e adattarmi a questo livello. Avrò bisogno di tempo, ma ovviamente mi piacerebbe giocare il più possibile“.

Quanto è difficile giocare con tanta pressione, dal momento che tutti si aspettano sempre grandi prestazioni e vittorie dal VakifBank?

Uno dei motti di questo club è: ‘Pressure is a privilege that we deserve’ (la pressione è un privilegio che meritiamo, n.d.r.). Penso che sia un’affermazione vera perché, quando giochi nelle migliori squadre al mondo, la pressione diventa più grande, ma in un certo senso te la sei ‘guadagnata’. Dunque, la pressione non sarà mai un peso che ci limita; è qualcosa che ci spinge a confermarci tra le squadre più forti“.

Sarah Van Aalen VakifBank Istanbul
Foto VakifBank Spor Kulubu

Dove può arrivare il VakifBank in questa stagione? Quali sono i vostri obiettivi?

Onestamente non so ancora fino a che punto riuscirà a spingersi questa squadra. Sono qui da poco tempo, ma finora l’impressione è molto positiva: penso che abbiamo grandi qualità, combinate a un buon livello di esperienza. Il nostro obiettivo è di vincere il maggior numero di trofei, cioè cinque. Ne abbiamo già vinto uno, quindi ne mancano altri quattro“.

Se dovessi descriverti come giocatrice a chi magari non ti ha mai visto giocare, come lo faresti?

In generale, mi reputo una persona a cui piace mantenere la calma e la concentrazione. Giocando da palleggiatrice devo pensare tanto agli aspetti tattici e capire cosa fare in ogni momento. Quindi, per me è molto importante restare calma e non lasciarmi influenzare troppo dalle emozioni. Per quanto riguarda le mie qualità, penso di essere un’alzatrice che ha il ‘game plan’ sempre chiaro in testa ed è brava a eseguirlo. Inoltre, sono alta per il mio ruolo e questo è certamente un vantaggio“.

Arrivi da stagioni positive con le maglie dell’USC Münster e dell’SC Potsdam. In che modo queste esperienze in Germania ti hanno plasmato come persona e come giocatrice?

I quattro anni in Germania sono stati molto preziosi. Münster è stata la mia prima squadra all’estero, e penso che l’intera esperienza di vita lontano dai Paesi Bassi e l’esordio in un campionato professionistico siano stati fondamentali. Anche a Potsdam ho imparato tante cose, sia come giocatrice sia come persona: il mio gioco si è evoluto e sono cresciuta grazie ad allenamenti di alto livello con un top team tedesco; in più, sono diventata più indipendente e matura“.

Sarah Van Aalen Florien Reesink Olanda
Foto Volleyball World

Ti va di tracciare un bilancio dell’estate in nazionale? Quali sono le cose migliori che è riuscita a fare l’Olanda?

Quest’estate in nazionale è stata straordinaria. Pur essendo una squadra molto giovane, penso che abbiamo fatto un ottimo lavoro e siamo riuscite a ottenere buoni risultati. Abbiamo iniziato la stagione internazionale con la VNL, che è stata l’occasione per conoscerci meglio visto che c’erano alcune ragazze nuove nel gruppo. Durante questo torneo abbiamo principalmente cercato di prepararci per il Campionato Europeo e il torneo di qualificazione olimpica. Il momento clou della nostra estate è stata sicuramente la medaglia di bronzo agli Europei, che è arrivata dopo aver giocato una pallavolo di buon livello e aver battuto l’Italia per 3-0 nella finale per il terzo posto. Alla fine, non siamo riuscite a qualificarci ai Giochi Olimpici con un anno di anticipo, ma credo che abbiamo buone possibilità di ottenere il pass per Parigi sulla base del ranking mondiale“.

C’è qualcosa che avreste potuto fare meglio nel torneo di qualificazione alle Olimpiadi?

Penso che l’unica partita in cui avremmo potuto fare qualcosa in più sia quella contro il Canada, dal momento che eravamo in vantaggio 2-1 e abbiamo perso al tie break. Invece, sono convinta che la sfida con la Repubblica Dominicana non sia andata così male: semplicemente le nostre avversarie erano in uno stato di forma fisica e mentale incredibile e quel giorno non siamo riuscite batterle. A volte la pallavolo è così. Quindi, l’unica cosa che potevamo fare di più sarebbe stato vincere contro il Canada. Comunque, come ho detto in precedenza, se la prossima estate faremo bene in VNL avremo buone possibilità di qualificarci alle Olimpiadi“.

Com’è Sarah van Aalen fuori dal campo e quali sono i suoi hobby preferiti?

Mi piace scoprire città e posti nuovi, andare a prendere un tè con le amiche o le compagne di squadra e, quando sono in Olanda, fare passeggiate con il mio cane. Al di fuori della pallavolo, passo gran parte del mio tempo libero studiando criminologia oppure stando in compagnia della mia famiglia e dei miei amici“.

Parlaci un po’ della tua passione per la criminologia. Di cosa si tratta? Cosa ti piace di questa disciplina?

La criminologia è un mix di psicologia, legge, sociologia, statistica e altre cose. È una disciplina che ti insegna l’evolversi del pensiero criminologico e le teorie su come qualcuno diventa un criminale. Dunque, si trattano molti argomenti. In particolare, sono affascinata dalla ricerca dei motivi per cui alcune persone commettono reati e altre no, e da come la mente sia diversa da persona a persona. Un giorno mi piacerebbe lavorare in un carcere, come direttrice o come specialista che aiuta gli ex detenuti a reinserirsi nella società“.

di Alessandro Garotta

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Falaschi Week, Capitolo 2: Giovani, chiavi di comunicazione, supporti psicologici e ruolo del capitano

Interviste

Nel primo capitolo della nostra Falaschi Week si è parlato molto di tecnica ed è emerso quanto sia necessario anche avere una predisposizione al sacrificio per lavorare su se stessi facendo anche esercizi che, inizialmente, potrebbero risultare noiosi e ripetitivi. Ripartendo da qui, chiediamo a Marco se i giocatori di oggi, quelli più giovani, siano predisposti a questo tipo di lavoro oppure no. Andando a fondo della questione, poi, sono emerse anche altre differenze rispetto ai giocatori, per così dire, più maturi, o comunque rispetto alla pallavolo di qualche anno fa. Oggi è necessario avere un approccio differente sia dal punto di vista relazionale che del coaching e un altro tema che sta emergendo di recente è la necessità, sempre più diffusa, di un supporto psicologico. Come si inserisce la figura del capitano in tutto questo? Andiamo con ordine.

Fala i giocatori più giovani ce l’hanno oggi questa pazienza di cui parlavi, questa attitudine al sacrificio?

“La propensione al sacrificio è sicuramente diversa, ma questo è un cambiamento figlio di questi tempi. Questo è palese. Prima uno in palestra ci stava anche quattro, cinque ore, era anche una valvola di sfogo. Se tornavi a casa c’erano solo i libri di scuola ad aspettarti. Oggi invece i ragazzi hanno tante distrazioni e tante situazioni extra pallavolistiche. Ciò detto, però, non mi sento di dire che siano totalmente scapestrati, totalmente svogliati. Come in tutte le cose, bisogna trovare la comunicazione giusta, questo sì, perché se prima quello che ti diceva di fare l’allenatore tu lo facevi, adesso con loro serve fornire una spiegazione, anche tecnica. Ci vuole una maggiore attenzione in quello che si dice”.

Perché oggi funziona così?

“Perché all’inizio c’è sempre in loro un minimo di dubbio. Prima si rispettava forse di più la figura, il ruolo dell’allenatore. Accettavi il fatto che ne sapesse più di te, che avesse più esperienza di te, e ti affidavi senza farti troppe domande, facevi quello che ti veniva chiesto di fare. Oggi non funziona così, ma va detto comunque che quel dubbio iniziale che hanno i più giovani viene subito messo da parte una volta visti i risultati, una volta capito che quello che ti viene chiesto di fare porta effettivamente a dei miglioramenti. I giovani oggi hanno bisogno di avere degli obiettivi, degli stimoli differenti. In questo, ad esempio, essere un bravo allenatore gestore aiuta molto. Quelli bravi a gestire un gruppo, come abbiamo detto nella prima puntata, sono più bravi a toccare i tasti giusti di ogni singolo giocatore”.

Ci confermi, dunque, che oggi la comunicazione è una componente importante anche del coaching?

“Purtroppo sì. Dico purtroppo perché prima era tutto molto più semplice, mentre oggi bisogna davvero stare attenti a tutto. Bisogna pesare ogni parola ed essere in grado di toccare le corde giuste per ogni giocatore, perché, ripeto, non tutti sono uguali”.

Leggiamo sempre più spesso di giocatori e giocatrici giovani, anche giovanissimi, che necessitano di un supporto psicologico per performare al meglio, per gestire la pressione e le aspettative. È una cosa che c’è sempre stata e oggi se ne parla solo di più, oppure anche questo è figlio dei tempi?

“Prima era sicuramente più un tabù e anche per questo se ne parlava forse di meno. Onestamente, però, faccio fatica a ricordare persone che in passato abbiano raccontato di aver sofferto ad esempio di depressione, o di ansia, o di stress. Il primo se non ricordo male fu Marco Meoni, che smise di giocare dopo che iniziò ad avere attacchi di panico. A Verona nell’ultimo anno fece un lavoro psicologico, ma ricordo che iniziò a palleggiare di lato e quella era una forma di adattamento del corpo e della mente alla situazione che si era venuta a creare. Oggi c’è sicuramente più fragilità e questo credo che sia una conseguenza del cambiamento dei tempi. Se ne sente parlare sempre di più e si sente di più il bisogno di essere affiancati da professionisti”.

Che idea ti sei fatto su questi supporti psicologici ai giocatori?

“Io non sono per un no a priori. Ho avuto compagni di squadra che ne hanno avuto bisogno, ma quello che gli ho detto sempre, anche da capitano, è che se ne trovano giovamento va bene, però poi non deve succedere che se non c’è lo psicologo non riesci a giocare”.

Tu hai mai sentito il bisogno di avere questo tipo di supporto?

“No, devo dire di no, ma forse perché sono stato anche abituato in un certo modo. Davanti ai problemi ho sempre lavorato da solo per cercare la soluzione”.

E i ragazzi di oggi non sono in grado di farlo?

“Forse meno perché hanno meno strumenti per risolverli e per cavarsela da soli. Ripeto, nulla in contrario se decidono di farsi aiutare da un professionista, ma non deve essere una cosa totalizzante”.

Comunicazione e psicologia: un buon capitano immagino debba saperle padroneggiare entrambe. Ma cosa è chiamato a fare veramente un capitano all’interno di uno spogliatoio?

“Ultimamente io ho giocato in squadre che lottavano per salvarsi, diciamo che sono stati più frequenti i momenti in cui c’è stato bisogno di un confronto, di guardarsi negli occhi e dirsi, senza troppi giri di parole, che si era nella m…a. Questa, ad esempio, è una responsabilità che spetta più al capitano che all’allenatore. L’ho fatto a Taranto, l’ho fatto anche quest’anno dopo la partita persa a Monza. Lì sono andato a prendermeli uno per uno, ci siamo chiusi nello spogliatoio e abbiamo parlato tra di noi. Stessa cosa l’anno prima dopo la partita con Cisterna perché le cose si stavano complicando”.

Quali sono i segnali di un pericolo imminente?

“In un gruppo squadra ti rendi conto quando le cose non girano più come dovrebbero. I segnali li cogli anche in allenamento e lì il capitano deve essere bravo a spegnere subito l’incendio dicendo ‘ragazzi, adesso ci dobbiamo parlare due minuti’. Prima magari ne parli solo con qualcuno, un’altra volta magari lo lasci andare, il giorno dopo glielo fai capire in altre situazioni, certe volte anche con una semplice battuta, poi però quando le cose si complicano allora è necessario affrontare il problema tutti insieme”.

Perché questo spetterebbe al capitano e non all’allenatore?

“Lo fanno anche gli allenatori, sia chiaro, ma il capitano è una figura importante perché è quella che fa da raccordo tra la squadra e l’allenatore o tra la squadra e la società, ed è soprattutto quello che deve dare l’esempio. E lo fa certe volte anche sbagliando lui di proposito perché anche quello è un segnale forte. Faccio un esempio, ogni squadra si da sempre delle regole e delle multe. Una di queste erano 10 euro se si calcia il pallone. A me è capitato spesso: quando non ero contento di come stava girando l’allenamento, o dell’atteggiamento dei miei compagni, ho preso un pallone e l’ho calciato in tribuna. Il tutto senza proferire parola. Quando succede, tutti capiscano che quello è il segnale che sta a indicare che si è superato un certo limite e bisogna rientrare nei ranghi. Io ho pagato le mie multe, ma l’atteggiamento poi è sempre cambiato. Una provocazione che doveva servire a generare una reazione”.

Ho l’impressione che lei come capitano sia proprio un bel martello.

“Che fai, mi dai del lei adesso?”

Era in segno di rispetto.

“A chi?” 

Al capitano. Mica mi darai una multa per questo…

“Ci devo pensare. Intanto fammi 100 bagher al muro bello teso senza far cadere la palla”.

Vabbè, ma così mi hai spoilerato la puntata di domani.

“OOOOPS!”

Intervista di Giuliano Bindoni
(©Riproduzione riservata)

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