Rachele Rastelli ha trovato l’America: “New York mi ha cambiato la vita”

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Di Alessandro Garotta

Il sogno americano, a volte, ha la forma di un pallone: anno dopo anno, sempre più talenti italiani inseguono l’idea di affermarsi nello sport a stelle e strisce, il tutto conseguendo contemporaneamente una laurea di prestigio. 

Un’esperienza particolare che sta vivendo anche Rachele Rastelli – 21enne parmigiana, ruolo opposto – tra il campo e i banchi della St. John’s University di New York. Negli Stati Uniti, infatti, non esiste ancora un campionato professionistico vero e proprio, e sono gli studenti dei College i protagonisti dell’attività ai massimi livelli. Ecco allora che la quotidianità di New York può conciliare entrambe le attività: un notevole percorso di crescita che permette a Rachele di costruire al meglio il proprio futuro, e non le preclude la possibilità di poter tornare un giorno a giocare nella Serie A italiana.

Come procede la sua esperienza sportiva statunitense?

Mi trovo davvero bene, ho trovato l’ambiente ideale per crescere e sono contenta dei risultati ottenuti finora: senza dubbio, la vittoria della nostra Conference – la Big East – l’anno scorso è stata la soddisfazione più grande, anche perché la nostra squadra non la vinceva dal 2007“.

Come è nata l’opportunità di giocare negli Usa? E perché la scelta della St. John’s University?

Durante la mia stagione in Serie A1 con la Saugella Monza, in occasione della Final Four di Coppa Italia a Bologna, in tribuna c’era Jesica Umansky, che con la sua agenzia Sportlinx360 si occupa di portare talenti di buone prospettive negli Stati Uniti. Ho accolto la sua proposta come una grande opportunità da prendere al volo e, dopo vari passaggi burocratici, sono stata dichiarata ‘eligible’, ovvero avevo tutti i requisiti per il campionato universitario americano. A quel punto, sempre tramite l’agenzia, mi sono arrivate proposte da diversi college. I programmi migliori erano quelli della St. John’s e di un’università del North Carolina: alla fine, la scelta è ricaduta sulla prima perché l’allenatrice, Joanne Persico, mi aveva fatto un’ottima impressione e trasmesso grandi sensazioni fin dal nostro primo incontro. Avevo anche avuto modo di sentire Erica Di Maulo (palleggiatrice di Saint John’s dal 2016 al 2019, n.d.r.), che era qui da due anni e si stava trovando molto bene. E poi c’è da dire che New York è New York…“.

A distanza di due anni e mezzo, è convinta che sia stata la scelta migliore per la sua crescita? In quali aspetti è migliorata maggiormente?

Questa esperienza ti cambia la vita, dunque è una scelta che rifarei sempre. L’Italia mi stava stretta, specialmente dopo un anno carico di tensione, in cui parallelamente all’esperienza in A1 ho terminato gli studi superiori: avevo bisogno di staccare la testa e di andarmene da quello che era stato per me uno dei momenti più difficili della mia vita. In America ho trovato l’ambiente ideale per crescere e fin dal primo giorno ho dato il massimo per conquistarmi un posto da titolare in squadra, che non era assolutamente scontato: credo di essere migliorata e diventata più costante in tutti gli aspetti tecnici, dalla battuta alle direzioni del colpo in attacco, dal muro alla gestione degli errori. Quindi, sono soddisfatta del percorso che ho fatto finora e di aver ricevuto il riconoscimento come una delle migliori giocatrici dello scorso campionato. Ma questo non mi deve far pensare di ‘essere arrivata’ perché si può sempre fare meglio lavorando a testa bassa“. 

Cosa l’ha colpita maggiormente del sistema americano? 

In America gli ‘student-athletes’ vengono visti come dei ragazzi in gamba che fanno sacrifici per quello che amano, capaci di mettersi in gioco e conciliare sport e studio. In Italia, specialmente al liceo, l’atleta è spesso considerato come uno che non ha voglia di studiare e pensa solo alle sue partite o gare“.

Foto NCAA

Cosa cambia per quanto riguarda la pallavolo?

A livello di regole ci sono alcune piccole differenze. Quella più particolare – tanto che la prima volta che ho visto questa situazione non capivo cosa stesse succedendo – è che il libero può battere. Poi se il pallone colpisce il soffitto non viene considerato ‘out’, e quindi si può continuare l’azione. E prima di ogni partita viene suonato l’inno nazionale“.

Com’è cambiata la vita a New York con l’emergenza sanitaria?

Quando è arrivato il coronavirus in America mi trovavo proprio qui e, abitando vicino a un ospedale, mi sono resa subito conto di un vero e proprio boom di contagi, fino a 15 o 20 mila casi al giorno su una popolazione di 19 milioni abitanti nello Stato di New York. Quindi, in breve tempo ci siamo adeguati alle varie regole e precauzioni, come l’uso della mascherina e gli ingressi contingentati nei luoghi chiusi, soprattutto nei supermercati che inizialmente erano stati presi d’assalto. Sono tornata in Italia ad aprile, per poi fare ritorno a New York ad agosto e ritrovare una città che si era ormai abituata alla ‘nuova normalità’.

Ovviamente anche la vita in università è cambiata molto, con lezioni per la maggior parte online, tracciamento dei positivi, meno di 5 mila persone al campus (quando di solito ce ne sono anche 30 mila) e in generale poco movimento. Per quanto riguarda la nostra squadra, dopo che noi straniere abbiamo osservato un periodo di quarantena e siamo risultate tutte negative, abbiamo iniziato gli allenamenti. In un primo tempo, abbiamo sfruttato il bel tempo per allenarci all’aperto perché era più facile garantire il corretto distanziamento; poi, seguendo un protocollo rigido e non togliendo mai la mascherina, abbiamo iniziato a lavorare in palestra e sala pesi“.

Cosa ne pensa dello slittamento della vostra stagione? Una scelta giusta, secondo lei? 

Siamo passate dalla prospettiva della cancellazione completa allo slittamento della stagione con la possibilità di allenarci: certo, è stato triste perché un’atleta vorrebbe anche giocare, però poteva andare peggio. Quindi, penso che sia stata una scelta corretta, anche se la NCAA avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione sul fatto che in alcuni stati come la California, il Texas o la Florida, dove i numeri dei contagi sono elevati, non usino le mascherine anche in palestra, mentre noi a New York non la togliamo mai, stando attente a tutte le precauzioni necessarie: per esempio, in questo modo abbiamo evitato positività tra noi giocatrici, nonostante che a un certo punto sia emerso un caso nel nostro staff. Comunque, il rinvio della stagione ci ha dato l’opportunità di lavorare tanto – anche tre ore tutti giorni, fino allo sfinimento – su aspetti fisici, tecnici e tattici, e legare ancora di più come gruppo. Direi che ora siamo pronte per il nostro esordio che dovrebbe essere il 22 o 28 gennaio, sperando che si possa iniziare la stagione senza troppa ansia e preoccupazione per il virus“. 

Foto St. John’s University

Come descriverebbe la sua squadra? E quali sono i vostri obiettivi stagionali? 

Per noi che veniamo dall’estero e viviamo lontano da casa, la squadra rappresenta un po’ una seconda famiglia. Penso che siamo un bel gruppo, composto da ragazze determinate e grandi lavoratrici. Nella scorsa stagione, quando siamo riuscite a vincere la nostra Conference, ci chiamavamo Dream Crushers (n.d.r. ‘ammazza-sogni’): nessuno si aspettava che potessimo raggiungere un risultato così importante, ma alla fine abbiamo tirato fuori gli artigli e avuto la meglio di formazioni forti come Creighton, Marquette e Villanova, che si sono disunite proprio nel finale di stagione. Questo vittoria, però, non ha saziato la nostra fame di fare bene; quindi, abbiamo resettato con l’obiettivo di ripeterci, anche se sappiamo che nessuno ci regalerà nulla. Poi cercheremo di fare meglio nel campionato nazionale della NCAA, dove l’anno scorso eravamo state eliminate al primo round per mano di Texas A&M“.

Quali sono i suoi sogni nel cassetto per il futuro?

Il sogno più grande è di trovare la strada giusta per il mio futuro. Al momento, lascio aperte tutte le porte: non sono sicura che dopo il college tornerò in Italia per la mia carriera in Serie A, ma neanche che lascerò la pallavolo e resterò negli USA, dove ci sono opportunità lavorative migliori. Non voglio prefissarmi nulla perché in fondo si vive una volta sola, come dice l’acronimo ‘YOLO’ (‘You Only Live Once’, n.d.r.) che ho tatuato sul braccio sinistro. Invece, a breve termine, cercherò di dare il massimo per la mia squadra, vincere il più possibile e completare con successo i miei studi. Credo poco nel destino e in un futuro già scritto, perciò continuerò a lavorare duramente per crescere sia come persona che come atleta, e più avanti raccoglierò i frutti e deciderò cosa fare da grande“.

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