Care mamme, lo sport è bellissimo soprattutto grazie a voi

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Di Stefano Benzi

Settimana scorsa mi hanno chiesto di scrivere  un pezzo sulle atlete che desiderano diventare mamme (leggi qui). E la cosa ha aperto collegamenti a una gran quantità di storie nel mio archivio personale: cosa credete… anche io ho i miei ricordi negli armadi… dei bei ricordi per altro. Magari la prossima volta un giorno o l’altro ve li racconterò.

Ma oggi voglio parlare di mamme che non sono atlete ma che se consideriamo cene al volo, lavatrici di corsa, car-sharing al salto e trasporto borsoni non temono assolutamente nessun confronto agonistico. È una cosa che vedo non è cambiata e resiste con il passare degli anni: le mamme sono il primo motore immobile degli spogliatoi e questo vale a qualsiasi livello e per qualunque sport. Il papà è l’addendo competitivo: è agente, procuratore e personal trainer del figlio. Possiamo dirlo? Pure un po’ troppo a volte.

La mamma è quella che ha il fitostimoline sempre in borsa per qualsiasi abrasione, cicatrizzante e disinfettante a portata di mano: è la prima che consola la ferita epidermica e quella morale… “Perché non mi ha passato il pallone”, “Perché non mi ha fatto giocare”, “Perché mi ha fatto entrare così tardi”… e le mamme nel bene e nel male una risposta ce l’hanno sempre.

Mia madre, che si chiama Lina e che sicuramente se sapesse che sto scrivendo di lei me ne urlerebbe di tutti i colori, ha macinato migliaia di chilometri quando da ragazzino giocavo a basket, pallamano o dimostravo un discreto talento nel nuoto. Ma la prima passione fu il basket anche perché il campo era proprio davanti a casa, una terribile colata d’asfalto tra il quartiere di Pegli dove sono cresciuto, a Genova, e la galleria della vicina autostrada. Si giocava nel frastuono di camion e auto che passavano di continuo e si trascorrevano ore e ore e ore a giocare a pallacanestro: per la gioia della signora che viveva con la finestra appoggiata al campo dove se non si giocava a basket si giocava a calcio usando i sostegni dei canestri come porticine. Ore e ore e ore. Ginocchia sbucciate a non finire su quel maledetto campo d’asfalto dove si vinceva sempre: un po’ perché i signorini che arrivavano a giocare sul quel campaccio e all’aperto – abituati com’erano a calde palestre in parquet – da noi partivano con venti punti di passivo, ma anche perché avevamo un giocatore straordinariamente forte che potevamo avere solo noi e faceva la differenza. Lo schema classico era palla a Emilio, qualcosa farà.

Io ero veramente scarso: scoordinato, due braccia lunghissime che arrivavano alle ginocchia, le gambe storte, una magrezza da presunto rachitismo che mi valse il primo soprannome… Costola.

Mia madre che non era ansiosa, di più, aveva il terrore che mi facessi male in qualsiasi maniera: anche stando seduto. Per cui diventò una delle mamme driver della squadra. Si andava in trasferta all’Athletic, al Pio XII, allo Scat, a Granarolo, a Coronata, all’UISP di Rivarolo e all’Ardita di Nervi: per noi che stavamo nell’estremo ponente genovese era comunque andare dall’altra parte del mondo. Mia madre con la sua Simca 1100 bianca caricava borsoni e giocatori e partiva in carovana con altre tre o quattro auto: mamma attendeva pazientemente l’inizio della partita, guardava me che giocavo (male) i miei cinque-sei minuti, e si tornava a casa. La scena si è ripetuta per molti anni, tanti campionati e infinite trasferte.

È la stessa scena che vedo ogni giorno sui campi vicino a casa mia e nelle palestre dove adoro fermarmi a guardare le partite di pallavolo o di basket giovanile. Ma riguarda anche tennisti, nuotatori, atleti o ginnaste. Quello delle madri è un esercito silenzioso, agguerrito e organizzato. Ogni tanto esagerano… Dovete sapere che tra i tanti difetti che ho c’è anche quello di aver fatto l’arbitro per molti anni. Una domenica mattina sono a dirigere una gara di calcio tra ragazzini di quattordici anni: uno di loro segna un gol stratosferico in rovesciata, una roba da cineteca. Mi passa accanto e gli do la mano dicendogli “Bravo!”. Ricordo di avergli sfiorato la testa con un buffetto.

“Grazie signor arbitro…” mi risponde educato, interrotto da una voce che dalle tribune urla “Questa poi ce la devi spiegare, arbitro piedofilo”. No, non è un refuso, mi urlò proprio piedofilo.

Mah… Il ragazzino che aveva segnato il gol dopo qualche secondo a palla in movimento mi viene vicino e mi dice “Mi perdoni signor arbitro, è mia madre, non ci faccia caso”. Lo avrei abbracciato, ma poi invece che piedofilo  magari diventavo qualcosa di ancora peggio: abbozzai e sorrisi.

Care mamme, vi vogliamo tutti molto bene e vi ringraziamo per il tempo, la dedizione, la cura, l’affetto e l’impegno con cui gestite la causa dello sport nel nostro paese. Siete i primi volontari insostituibili.

Vi prego, non diventate mai, nemmeno per sbaglio come alcuni vostri mariti. E non vi chiediamo nemmeno di far cambiare loro idea convincendoli che un allenatore c’è già, che un arbitro ci deve essere e che i ragazzini possono anche semplicemente divertirsi pur perdendo. Impossibile. Di vincenti mancati è pieno il mondo e qualche genitore ha le sue responsabilità.

Proviamo a far crescere i nostri ragazzi con pochi valori, estremamente semplici che solo la famiglia, la scuola e la loro società sportiva possono provare a passare: “Comunque vada, divertitevi. Fuori ci sarà qualcuno che lenirà le ferite del corpo e quelle morali: entrambe servono a crescere”.

A me quelle trasferte in Simca 1100 con i miei compagni del Pegli2 mancano da morire: e invidio molto i ragazzi che a bordo palestra hanno una mamma che li aspetta cui racconteranno dell’allenamento, e della palla troppo alta, e del muscolo che fa un po’ male, e della ragazza della squadra femminile con la coda bionda che è proprio carina.

Crescere è un bel mestiere: lasciamoglielo fare in santa pace e divertendosi.

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