Il futuro degli USA nelle mani di Kami Miner: “Sogno Los Angeles 2028”

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Non è per nulla scontato dare una definizione di talento nella pallavolo, né come misurarlo: è qualcosa di vago, astratto, ci sfugge dalle mani come se provassimo ad afferrare un’anguilla. Questo perché il talento è spesso descritto attraverso le sensazioni che suscita in chi lo guarda, piuttosto che una serie di attributi dello stesso: è perciò un concetto altamente soggettivo. Ecco perché parlare oggi di Kamerynn “Kami” Miner oggi come la next big thing della pallavolo mondiale può esporci al rischio di un’euforia che potrebbe sgonfiarsi e scemare già tra qualche settimana, o mese, lasciando il ricordo un po’ imbarazzante di quella volta che non ci siamo saputi controllare.

Eppure, questa ventenne palleggiatrice statunitense della Stanford University, figlia dell’ex giocatore NBA Harold Miner, sembra essere davvero un diamante, neppure troppo grezzo, destinato presto a rivelarsi in tutta la sua brillantezza. Scopriamola nella nostra intervista esclusiva.

Kami, raccontaci qualcosa di te, del tuo carattere e della tua storia.

Il mio nome è Kami Miner e sono una palleggiatrice del secondo anno – quasi terzo – alla Stanford University. La mia famiglia è composta da quattro persone: mio fratello minore si chiama Brayden, mentre i miei genitori Pamela e Harold Miner. Può darsi che qualcuno abbia già sentito parlare di mio padre perché è stato un giocatore di basket in NBA e fa parte della Hall of Fame della University of Southern California. Sono nata e cresciuta a Las Vegas, in Nevada, ma mi sono trasferita a Redondo Beach, in California, nel 2017 quando ho iniziato a frequentare il liceo. Gioco a pallavolo da ormai 10 anni e quando non sono in palestra mi piace dilettarmi in cucina. Cucinare per amici e familiari è sempre stata una mia grande passione e penso che sia un hobby che rifletta al meglio il lato creativo della mia personalità. Chi mi conosce bene probabilmente mi descriverebbe come una persona un po’ sciocca, che cerca sempre di fare ridere gli altri, ma è estremamente competitiva e determinata in tutto ciò che fa“.

Kami Miner Stanford
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Com’è nata la tua passione per la pallavolo? È stato qualcosa di naturale, nonostante che tuo padre sia stato un grande cestista?

Amo il volley perché è uno sport di squadra e mi è sempre piaciuto il ruolo dello spirito di gruppo nei successi di un team. Curiosamente, la pallavolo non è stata la prima disciplina che ho praticato. Infatti, fino ai 9 anni ho giocato a tennis e a calcio. Mi sono innamorata del volley a 10 anni, quando sono entrata a far parte della mia prima squadra. La carriera da cestista di mio padre ha influenzato il mio percorso promuovendo un rapporto sano con lo sport, ma non nel modo in cui la maggior parte della gente potrebbe pensare. Infatti, non sono mai stata costretta o incoraggiata a giocare a basket. Mio padre voleva solo che la determinazione e il senso di competitività, che mi ha trasmesso fin da piccola, mi guidassero in ogni ambito della vita“.

Com’è stato il tuo percorso da giocatrice finora?

Questa domanda mi fa sempre emozionare perché, se ripenso alla mia carriera pallavolistica fino ad ora, ho la sensazione di vivere un sogno ad occhi aperti: è da quando avevo 11 anni che coltivavo il sogno di ottenere una borsa di studio per giocare a livello collegiale. Ora sono una palleggiatrice, ma non è sempre stato così. Infatti, ho iniziato come centrale, poi sono diventata una ‘six rotation player’. Un giorno, però, in occasione di un torneo 4 vs 4 in cui mi divertivo a giocare da regista, la direttrice del mio primo club, April Chapple, mi fece notare che avevo buone mani. Ero solo una 14enne, ma da quel momento mi sono innamorata del ruolo di alzatrice, soprattutto perché si adatta perfettamente al mio carattere di persona calma, a cui piace prendere in mano le situazioni in cui si trova.

In realtà, il percorso per diventare la palleggiatrice che sono oggi non è stato facile, anche perché la maggior parte delle persone vede solo atletismo in una giocatrice di colore. Non pensa mai di schierarla in cabina di regia perché non comprende che tra le nostre qualità ci possa essere qualcosa che va oltre ad una corporatura atletica. Basti pensare che la pallavolo ha una lunga tradizione di giocatrici di colore etichettate come centrali o schiacciatrici. Dunque, penso di avere avuto la fortuna di essere stata circondata da persone che hanno sostenuto la mia crescita e rispettato il tempo necessario affinché diventassi una buona palleggiatrice“.

Come mai hai scelto proprio la Stanford University?

Stanford è speciale per molte ragioni, ma in particolare per le persone che studiano, insegnano e lavorano in questo ateneo. Ogni tanto mi capita di scherzare sul fatto che non c’è un altro posto in cui puoi trovare gente che fa importanti scoperte o studi nel proprio campo di lunedì e partecipano al ‘Fountain Hopping’ di sabato (la tradizione del salto tra le fontane è simbolo di una cultura apparentemente divertente e rilassata tipica della California, n.d.r.). La mia esperienza a Stanford è in gran parte incentrata sulla pallavolo, ma c’è dell’altro. Infatti, sono una studentessa iscritta alla facoltà di Economia che al termine della sua carriera sportiva sogna di entrare nel mondo del business.

Quando a 10 anni ho cominciato a giocare a pallavolo, non avrei mai potuto immaginare di arrivare a frequentare la Stanford University. È buffo pensare che i miei genitori dovettero costringermi a visitare il campus quando ero al primo anno di liceo, per poi piangere perché volevo restare lì ancora un po’. Per me rappresentava il posto in cui avrei potuto inseguire le mie passioni al di là della pallavolo, e allo stesso tempo partecipare al campionato nazionale e prepararmi alla mia carriera da professionista. Posso dire con assoluta certezza che non c’è altro ateneo in cui avrei voluto trascorrere i miei quattro anni di college“.

Kami Miner Stanford
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Quest’anno Stanford ha sfiorato le Final Four, alzando bandiera bianca contro San Diego nell’Elite Eight. Qual è il bilancio dell’ultima fall season?

Il 2022 è stato un anno di grande crescita per la nostra squadra, perché abbiamo capito ciò che serve per arrivare alle Final Four, con la speranza poi di vincere il campionato nazionale. Il nostro rigoroso programma di lavoro nella pre-season ci ha permesso di impostare al meglio l’annata e identificare i nostri punti deboli. Così, durante l’autunno, abbiamo potuto lavorare ogni giorno per migliorare gli aspetti meno positivi e, al netto degli infortuni, sono orgogliosa del nostro percorso. Dopo la vittoria della nostra Conference siamo arrivate al torneo NCAA con grande slancio, anche per il fatto di essere una delle quattro teste di serie. Perdere contro San Diego nell’Elite Eight è stato a dir poco doloroso e sono certa che anche le mie compagne non vogliano più provare quella sensazione. È stata una sconfitta che ci ha insegnato tanto e soprattutto ha rivelato in cosa dobbiamo crescere per arrivare fino in fondo.

Da qualche settimana, abbiamo iniziato il periodo di allenamento primaverile e mi sembra che tutte le giocatrici abbiano una grande voglia di migliorare individualmente per massimizzare il potenziale della squadra in vista della pre-season che inizierà tra meno di quattro mesi. Sono molto carica per la prossima annata e non vedo l’ora di vedere cosa saremo in grado di fare. Il nostro obiettivo di vincere il campionato nazionale è ormai noto a tutti, ma sappiamo che per raggiungere questo traguardo c’è una lunga strada da percorrere. Perciò, sarà importante procedere passo dopo passo“.

Grazie alle tue ottime prestazioni sei stata inserita nell’All-Conference team e hai vinto il premio di “Pac-12 Setter of the Year”. Cosa significano per te questi riconoscimenti?

È stato un grande onore ricevere questi premi, che sono la diretta conseguenza del lavoro che ha fatto tutto il team. Però, ottenere riconoscimenti non è né il mio focus né il mio obiettivo. Semplicemente lavoro ogni giorno per essere la miglior palleggiatrice e la miglior compagna possibile, in modo che la squadra possa continuare a crescere e alla fine raggiungere il sogno di diventare campione nazionale“.

Come ti descriveresti come palleggiatrice? Hai qualche modello di riferimento?

In generale, sono una giocatrice dall’atteggiamento molto equilibrato: secondo le mie compagne, trasmetto calma e tranquillità nei momenti più stressanti delle partite. Da palleggiatrice ci tengo molto a giocare in modo aggressivo e a sfruttare il mio atletismo per impostare il gioco senza sovraccaricare di pressione le attaccanti. Sono tante le professioniste che seguo con attenzione, ma le mie preferite in assoluto sono Joanna Wolosz e Maja Ognjenovic. Cerco sempre di migliorare il mio gioco prendendo spunto da quello che fanno queste grandi alzatrici, soprattutto nella gestione dell’attacco“.

Kami Miner Stanford
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Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto durante la tua carriera? “Everything starts with the feet“?

Forse sono di parte, dal momento che ho la fortuna di avere un genitore che è stato un atleta professionista, ma il miglior consiglio che abbia mai ricevuto me l’ha dato proprio mio padre. Anche se potrebbe sembrare banale, nei momenti più difficili del mio percorso mi ha sempre ripetuto: ‘Il duro lavoro non passa inosservato a Dio’. È una citazione che più volte mi torna in mente quando sono al lavoro per raggiungere un obiettivo. Invece, ‘Tutto parte dai piedi’ è una frase abbastanza divertente, detta sempre da mio padre, che cerco di non dimenticare mai durante i miei allenamenti“.

Quali sono i ricordi più belli delle tue esperienze con le nazionali giovanili statunitensi?

Ho avuto la fortuna di partecipare ad alcune competizioni internazionali, tra cui anche i Campionati del Mondo giovanili. Queste esperienze mi hanno portato in Honduras, Egitto, Paesi Bassi e Belgio, permettendomi di conoscere nuove culture e soprattutto gareggiare a un livello molto alto. Il ricordo più bello con la nazionale statunitense è la vittoria del Mondiale Under 18 nel 2019 a Ismailia City, in Egitto: prima di allora, gli USA non erano mai riusciti a raggiungere un risultato così prestigioso in quella categoria“.

Quali sono i tuoi sogni nel cassetto, dentro e fuori dal campo?

Per quanto riguarda la mia carriera pallavolistica, dopo il college spero di andare all’estero a giocare a livello professionistico e di essere chiamata dalla nazionale statunitense. Il mio obiettivo più grande è di entrare a far parte della squadra olimpica e gareggiare per vincere la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Los Angeles 2028. Una volta appese le ginocchiere al chiodo, vorrei conseguire un master in Business e poi iniziare il mio percorso lavorativo formale. Al momento, però, sto ancora cercando di capire come utilizzare al meglio la mia futura laurea in Economia“.

Quando un giorno smetterai di giocare e guarderai la tua carriera in retrospettiva, per cosa vorresti essere ricordata?

Per molte cose. In primo luogo, spero che la gente mi ricordi come una giocatrice sicura di sé, coraggiosa e libera, e ripensi alle emozioni che ha provato quando mi ha visto in campo. Vorrei essere ricordata anche come un ‘bagliore di luce’ per le ragazze di colore che sognano di diventare palleggiatrici: infatti, non è così facile lavorare per il raggiungimento dei tuoi obiettivi se non ci sono altre persone simili a te da prendere come modelli di riferimento. E io spero proprio di diventare una fonte di ispirazione per le giovani ragazze di colore“.

di Alessandro Garotta

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Capitan Beretta si sposa: l’addio al celibato (da orsi), i cinque testimoni e… Monza

Sale in Zucca

Come se fossi un mitologico Lello Arena in uno sketch televisivo creato assieme a Troisi, intento a strillare al mondo la parola annunciazione, annunciazione, vi indico una data, ovvero quella del 20 giugno 2025. Vi indico addirittura una location, che è Mapello, territorio a me ignoto posizionato per quel che so tra Bergamo e Monza. Voglio essere buono e dirvi anche che i testimoni saranno non uno, ma cinque, un po’ all’americana, un po’ laddove il damigellato è la nuova frontiera pallavolistica con la quale organizzare i nuovi matrimoni. Perché se sei Thomas Beretta, ossia uno dei (sempre un mio umilissimo parere) migliori capitani della Superlega dell’ultima decade, di gente che ti vuol bene ne collezioni stagione dopo stagione, e quindi scegliere una sola persona che ti accompagni in uno dei giorni più importanti della tua vita, appare una scelta insormontabile. Nel caso di Thomas, e soprattutto di chi ha memoria, la scelta è ricaduta su mitologici personaggi della pallavolo lombarda, alcuni noti alle cronache nazionali, altri noti più a chi in questo universo lo conosce come una grande famiglia Berettiana, che con Sara Loda, perfetto esempio di pallavolista adorata all’unanimità, convolerà a nozze tra qualche giorno.

“Saremo circa duecento persone, ed è normale perché entrambi tenevamo ad invitare tutte le persone che con noi hanno fatto parte di questo percorso pallavolistico. I miei testimoni saranno Simone Anzani, Andrea Moro, William Taliento, Massimo Santin, che sono i compagni e gli amici della pallavolo che mi hanno accompagnato sin da giovane e Camillo, mio fratello”.

Sua moglie ha organizzato un addio al nubilato olimpionico. Del suo addio al celibato, ovviamente, non vi è traccia.

“(ride n.d.r) Chi mi conosce sa che non sono uno che ha un grandissimo rapporto con i social, quindi ho solo pensato a godermi i quattro giorni ad Ibiza che ho trascorso con gli amici di sempre. Quindi non racconterò nulla, anche perché i miei amici sono più orsi di me da questo punto di vista. Dico solo che è stato divertente!”.

foto Instagram @alessiaorro8

Beretta e Loda. Accomunati da un enorme sentimento reciproco e da un grande amore per il volley. Supererete le distanze?

“Dovremo almeno per l’anno prossimo perché Sara resterà a Houston dove ha giocato quest’anno nella nuova Lega americana. Si è trovata molto bene, aveva un biennale ed è giusto che prosegua negli Stati Uniti perché è un’ottima opportunità per lei”.

Lei ha appena firmato il suo tredicesimo contratto con il Vero Volley. Beretta è il Francesco Totti della pallavolo?

“Fare parte del Consorzio racchiude un po’ la storia della mia carriera. In serie A, il prossimo anno sarà la mia diciassettesima stagione e questa è la mia undicesima stagione consecutiva qui. Ero qui quando il nome del club era Che Banca! Milano, quando tutto questo è nato. Per me vestire questa maglia e fare parte del futuro di questa squadra è molto importante”.

Non giriamoci attorno, arriva da una stagione molto complicata. Mi prendo io la responsabilità di dire una cosa. Senza un capitano come lei, quest’anno non credo ce l’avreste fatta.

“Io non so se questa cosa sia vera, ma di queste parole le sono grato. Ho cercato di portare avanti la stagione da capitano, facendo capire che il segreto per ottenere delle cose era lavorare, pensando a tutto con senso del dovere, spirito di sacrificio e dimostrando quanto fosse importante giocare, vincere e pensare solo al proprio lavoro e non al contorno di questo ambiente”.

Entrare nelle dinamiche interne ad uno spogliatoio ho sempre trovato fosse dannoso, nonostante tutti sappiamo di ciò di cui si parla. Mi dica almeno cosa ci ha messo in più.

“Ho pensato a staccare tutti quanti dai problemi che avevamo e con cui dovevamo fare i conti tutta la settimana e a far capire loro che dovevamo fare solo i giocatori, ovvero ciò per cui abbiamo tutti firmato qui a Monza. Nelle ultime due o tre settimane ho visto una pallavolo allenata e giocata di alto livello. Siamo riusciti a reggere soprattutto al fotofinish e l’obiettivo salvezza è diventata una realtà”.

Da cosa si riparte?

“La squadra che sta costruendo Monza mi piace, quindi sono molto positivo. Sono certo che ci si possa divertire. Dopo un’annata così difficile e complicata, tutti noi dobbiamo capire che non possiamo solo sopravvivere in una Superlega che cresce anno dopo anno. Dobbiamo vivere e affrontare ogni giorno in palestra come se fosse l’ultimo”.

È possibile ricreare la magia di due anni fa, quando trovò Monza strabordante di spettatori e la finale scudetto da giocare?

“Ci proveremo, anche se è troppo presto parlarne”.

Il suo percorso è stato uno dei più belli a cui abbia assistito, anche perché io so chi era il ragazzo che mi sono trovato di fronte nel 2011, quasi quindici anni. Cosa è cambiato?

“Ero più spensierato, di certi pensieri che ora faccio da capitano me ne accorgevo di meno. Ero anche più vulnerabile, tanto che molto di ciò che mi è capitato pensavo fosse irrecuperabile. Poi la vita ti pone di fronte ad una crescita che inevitabilmente devi fare se vuoi assumerti delle responsabilità”.

foto Legavolley

Lei è diventato il simbolo di Monza. Quest’anno le dico di più, con l’addio di Matteo Piano alla pallavolo giocata, credo che lei diventerà il simbolo della pallavolo lombarda, che considero un movimento a parte.

“Non ho pensato a questa cosa, ma è una responsabilità e non mi sento ancora di essere qualcosa di simbolico. Con Teo ho un ottimo rapporto e grazie a Louati nell’ultimo anno porto il ricordo di belle cene, l’ultima delle quali è avvenuta subito dopo la sua partita giocata a Modena. Credo che lui abbia dato per la pallavolo e ha dimostrato grande affetto a tutto l’ambiente, ricevendone altrettanto”.

La maglia ritirata, il palazzetto in piedi. Siete coetanei e siete cresciuti negli stessi anni e nello stesso ruolo. Mi dica che non l'ha sfiorata il pensiero di quando toccherai a lei.

“(ride n.d.r.) No, ma scherza. Chissà se per me ci sarà una cosa del genere, magari non sono nemmeno pronto a viverla. Lui su queste cose è molto più empatico di me. Io poi voglio ancora giocare.

Foto Vero Volley Monza

Era un gioco psicologico per chiederle di restare. 

“Per ora non preoccupatevi, mi avrete ancora tra i piedi per un bel po’”.

Intervista di Roberto Zucca
(©Riproduzione riservata)