Diletta Nicastro, la scrittrice seriale che adora la pallavolo

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Di Stefano Benzi

C’era una volta, una ventina d’anni fa – forse qualcuno di più – una ragazza che voleva scrivere. Questa ragazza mi si presentò con alcune storie molto belle e decisamente ben scritte e decisi di darle una piccola occasione. I soldi erano pochi ma c’era la possibilità di farsi leggere e Diletta colse la palla al balzo con tutta una serie di articoli, post e storie sempre molto affascinanti.

Quando per me arrivò il momento di abbandonare quel progetto e dedicarmi ad altro le raccomandai di non smettere e di continuare a scrivere. Oggi a distanza di anni Diletta, che di cognome fa Nicastro ha pubblicato una vera propria saga di tredici libri, ognuno dei quali ispirato a una delle città patrimonio dell’Unesco. I protagonisti dei libri sono Mauro e Lisi Cavalieri, due fratelli: ispettore Unesco il primo, giovane curiosissima e coraggiosissima la seconda, ex giocatrice di pallavolo. La coppia funziona, piace, la serie che è un po’ mistery e po’ narrativa, vuole sensibilizzare il pubblico sulle bellezze che ci circondano e sui rischi che corrono. I due protagonisti sono perennemente in viaggio alla ricerca di problemi da risolvere, rischi da scongiurare, pericoli da annientare.

Siccome Diletta non si è fatta mancare nulla ha anche deciso di fondare la sua casa editrice, la M&L. Perché – dice lei – vuole avere tutto sotto controllo e organizzato.

Caso strano per chi lavora fuori dall’impenetrabile circuito delle grandi case editrice, Diletta vive di quello che scrive: “Ormai posso dire che questo sia il mio lavoro – racconta – probabilmente non diventerò mai ricca ma mi piace pensare di potermi mantenere con quello che produco. Scrivo molto, la crisi narrativa non si fa sentire per ora, per fortuna”.

Scrive, corregge, stampa e promuove: “Il ciclo produttivo è questo, mi piacerebbe dedicare molto più tempo alla scrittura e alla ricerca ma alla fine faccio quello che è necessario – spiega Diletta – la revisione è sotto un certo aspetto il procedimento meno entusiasmante ma bisogna essere attentissimi, scrupolosi e rivedere qualsiasi errore. E poi si promuove, bisogna girare, andare in libreria, incontrare i lettori, farsi quanta più pubblicità possibile: considerando che facciamo tutto da soli non è uno scherzo”. Già perché nel frattempo è arrivato anche Pietro, quattro anni e mezzo: “Se prima il mio tempo era scandito dalla scrittura ora l’ultima parola ce l’ha il mio cucciolo. Scrivo al mattino quanto Pietro è a scuola, o magari nel primo pomeriggio: in ogni caso l’ideale è scrivere in modo costante e continuo. So che ognuno ha il suo metodo: c’è chi scrive sempre e solo due pagine tutti i giorni, chi lo fa di notte, chi scrive in vacanza… Io scrivo tutte le volte che posso: accendo il pc e scrivo. Con gli anni e l’allenamento sono anche riuscita a fare dei progressi portando avanti due progetti paralleli contemporaneamente”.

L’ultimo nato infatti è “Un principe per Agla”, impreziosito dalla prefazione di Mauro Berruto: “Agla è una giocatrice di pallavolo del Roma Volley, B2, e gioca opposto. Il libro racconta la genesi di una storia d’amore che però tocca molti altri argomenti attuali; la crisi del lavoro per esempio, le difficoltà che attanagliano le aziende e le imprese che non riescono a stare nei conti. La pallavolo è presente sullo sfondo con tutto quello che comporta la sua parte agonistica, ma anche la fatica degli allenamenti, le dinamiche dello spogliatoio, l’alternanza tra gioia e delusione di vittorie e sconfitte”.

Un libro dedicato non solo agli appassionati di pallavolo ma anche estremamente attuale: “Ho voluto sottolineare quelle che sono le difficoltà con le quali ci stiamo confrontando nel mondo del lavoro, che offre sempre meno certezze e scatena sempre più ansia. La pallavolo è da sempre la mia grande passione e mi è piaciuto creare questo spin off da un volume della saga nella quale Agla, che è una grande amica di Lisi, si era presentata al pubblico”.

E un libro dopo l’altro Diletta continua la sua rincorsa allungando la propria saga: i siti Unesco sono 1372, 52 dei quali sono in Italia. Alla nostra scrittrice non manca l’ispirazione e c’è solo l’imbarazzo della scelta.

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Falaschi Week, Capitolo 1: lo studio della tecnica è diventata merce rara

Interviste

In questo primo capitolo della Falaschi Week affrontiamo con Marco un tema di strettissima attualità che, complici anche alcune scelte di mercato, ha sollevato un dibattito importante nella comunità pallavolistica, ovvero quello legato agli allenatori. Parleremo anche di metodologie di allenamento, ma sempre in relazione a queste due macro categorie, queste due scuole di pensiero: quella degli allenatori gestori e quella degli allenatori tecnici.

Quali sono le differenze sostanziali?

“I gestori, lo dice la parola stessa, sono più bravi a gestire un gruppo, a gestire elementi e casi particolari, e mettono un po’ la tecnica in secondo piano. Ci perdono poco tempo insomma, sono più improntati a fare tanti sei contro sei in allenamento. I tecnici sostanzialmente sono quelli che prendono un giocatore e lo portano a un livello superiore. I primi allenano il gruppo, i secondi allenano differentemente ogni singolo giocatore. Oggi le squadre, soprattutto quelle di vertice, sono orientate a scegliere di solito i gestori mentre i giocatori, ovviamente, vorrebbero migliorarsi e quindi lavorare con chi predilige di più la tecnica”.

Come mai si scelgono di più i gestori rispetto ai tecnici?

“La risposta è facile, il tempo di allenare la tecnica non ce l’hai. I top team tra coppe e campionato giocano di fatto ogni tre giorni. Senza dimenticare che a inizio stagione non lavorano mai con i nazionali perché gli arrivano a ridosso dell’inizio del campionato. È per questo motivo che tante volte i tecnici vengono scelti da squadre da metà classifica in giù, perché hanno di solito tutta la settimana per lavorare e perché le società medio-piccole, diciamo così, hanno anche più interesse nel valorizzare e far crescere i giovani in rosa in chiave mercato”.

Eppure la tecnica sarebbe importante anche, se non soprattutto, per i top team e i top players.

“È verissimo. Io ti dico che tanti giocatori, tanti giovani, hanno sempre i loro momenti di difficoltà, ma, come mi ricordava sempre il mio maestro (di chi si tratta lo sveleremo in un prossimo capitolo), nei momenti di difficoltà tu vai a rifugiarti nelle cose tecniche. Quindi la cosa tecnica ti fa fare la cosa giusta, o più adatta, in quel determinato momento”. 

Un esempio pratico?

“Faccio l’esempio del palleggio. Se c’è un momento nell’arco della stagione che ad esempio il palleggiatore non riesce bene a servire in posto 4, vai a ripensare alle cose corrette che devi fare per palleggiare bene in quattro: allora pensi che i piedi li devi mettere così, le mani le devi mettere colà e così via. Spesso questa cosa qui è un po’ sottovalutata”.

In che senso?

“La tecnica è fondamentale anche negli allenamenti. Purtroppo invece si allena spesso la fase a punteggio e, ad esempio, il muro nella fase di gioco. Anche la stessa fase del muro ha bisogno però di una fase tecnica, perché se io vedo delle situazioni che non vanno, ad esempio prendo mani fuori o la palla si insacca, significa che c’è un problema tecnico. Di conseguenza bisogna andarlo a sviscerare quel problema tecnico e in allenamento devi lavorarci sopra, ma devi farlo tecnicamente. Molto, troppo spesso, invece, si pensa solo alla fase del gioco e si finisce col fare sempre sei contro sei”.

La ricezione è sempre una nota dolente per tante squadre e tanti giocatori. Per quella che è la tua esperienza, qual è il segreto per migliorare in questo fondamentale?

“Una cosa che io, personalmente, reputo sia sbagliata è quando si predilige troppo la quantità. Mettere da una parte giocatori che fanno quaranta, cinquanta battute, e dall’altro lato del campo gente che sta li a cercare di fare ricezioni positive, non aiuta a migliorare la qualità della ricezione. L’obiettivo non deve essere quello di cambiare posizione in ricezione dopo che arrivi a farne dieci giuste, perché magari per farne dieci giuste te ne hanno dovute battere trenta se non di più. L’obiettivo dovrebbe essere, non so, 6 su 10, 7 su 10. Lavorare individualmente e sulla tecnica, in questo caso della ricezione, significa che l’allenatore si deve mettere dietro al giocatore in questione e a ogni palla che sbaglia gli deve spiegare perché l’ha sbagliata”.

Forse si da per scontato che queste siano cose già apprese negli anni delle giovanili e che in Superlega non ci sia più la necessità di spiegarle o di lavorarci su.

“Sbagliatissimo, è proprio qui, a questi livelli che serve di più lavorare sulla tecnica. Ovvio che la tecnica è la stessa, il modo di mettere giù i piedi è lo stesso, le spalle, le braccia, ma bisogna tener conto che qui cambia la velocità della palla, quindi la tecnica deve essere correlata alla velocità della palla. Se non alleni la qualità, non costruisci le tue certezze. Se non hai certezze, che senso ha lavorare sulla quantità?”.

Lavorare così sulla tecnica forse richiede anche un maggior grado di disponibilità e sacrificio.

“Indubbiamente, bisogna essere disposti anche a rompersi le scatole a guardare i video, a cercare i dettagli, a cercare di trovare l’esercizio giusto per far fare le cose per bene. Questo perché non tutti gli esercizi vanno bene per tutti i giocatori. Ci vuole la pazienza e anche l’abilità di capire cosa è giusto per migliorare questo o quel giocatore in questo o quel fondamentale”.

Un altro fondamentale che sta diventato sempre più protagonista nella pallavolo moderna è quello della battuta. Quando entra va tutto bene, ma quando non entra vediamo squadre e giocatori che si incaponiscono senza trovare soluzioni o fare variazioni. Come mai?

“Anche quella è una cosa che va allenata, il problema è che in tanti lo fanno battendo a tutto braccio, solitamente in posto uno. Ma se batti a 120 km/h in posto uno e lì trovi il libero che te la riceve, a cosa ti serve battere così forte? Forse se in uno c’è il libero sarebbe meglio battere anche a 90 km/h, ma in posto cinque su un ricettore meno bravo. Ma quanti lo sanno fare? E perché non lo sanno fare? Perché evidentemente in allenamento non si fa quel tipo di lavoro, quella ricerca delle variazioni. Se non ci provi mai, non imparerai mai a farlo”.

Adesso capiamo perché tanti tuoi colleghi, al termine di ogni stagione, invece di chiederti dove andrai a giocare ti chiedono dove andrai ad allenare...

"Ahahahah, no dai, questo non scriverlo".

Ops.

Intervista di Giuliano Bindoni
(©Riproduzione riservata)