Foto BYU Men's Volleyball

Davide Gardini: “L’America mi ha insegnato l’indipendenza”

DATA PUBBLICAZIONE
TEMPO DI LETTURA
più di 5 minuti
SHARE
SHARE
TEMPO DI LETTURA
più di 5 minuti

Di Roberto Zucca

In questi giorni suo padre Andrea si gode la celebrazione del trentennale della Generazione dei Fenomeni in un susseguirsi di malinconia e ricordi. Se la testa riemergesse istantaneamente da quel passato, si troverebbe di fronte un presente fatto dallo stesso mix di fenomenologia e talento. Quel mix lo si vede negli occhi e nelle mani di Davide Gardini, il figlio sinora più ambizioso e dotato di quella generazione così osannata. Lo hanno capito per primi gli Stati Uniti, dove Davide è diventato il fiore all’occhiello della pallavolo universitaria:

È una bella avventura. Ho scelto Brigham Young perché è una delle università più prestigiose degli Stati Uniti in ambito business. E con profitto ho terminato il secondo anno di studi. La pallavolo è importante all’interno di BYU, ma lo sono anche i risultati scolastici. Spero di specializzarmi in marketing, che è un ramo di studi che in università è davvero competitivo”.

Con l’ambizione di farne cosa?

Di conoscere ciò che c’è dietro il processo di comunicazione e di promozione di un prodotto”.

Perché la pallavolo negli Stati Uniti, Gardini?

Perché è una grande opportunità. La mia famiglia mi ha dato la possibilità di studiare all’estero e di unire allo studio la vocazione per la pallavolo. Nello Utah faccio una vita morigerata, non è certo un college della California dove forse è tutto più amplificato, come si vede nei film. Forse mi sono preso il rischio di fare sport in un campionato che non è quello italiano, così come hanno fatto molti miei coetanei, ma finora posso dirmi davvero soddisfatto della scelta”.

La BYU ha chiuso il campionato pre-Covid da prima in classifica. È anche merito suo.

La ringrazio e le dico che è stato il frutto del lavoro di tutta la squadra. Ci siamo giocati la prima posizione in classifica con Hawaii e poco prima dello stop c’è stato lo scontro diretto proprio con loro. Poi lo stop forzato e il viaggio lunghissimo per rientrare a casa a Ravenna. Ora sono qui e trascorrerò l’estate in famiglia”.

So che è legatissimo a sua madre Novella.

Con mamma ho trascorso i primi 14 anni della mia vita, e assieme a mia sorella Serena abbiamo vissuto la carriera di papà, al quale sono molto legato. In una famiglia che ha sempre respirato così tanta pallavolo, ad un certo punto ho deciso di lasciare il calcio anche io e dedicarmi solo al volley. Alla lunga, mi è andata bene! Sono uscito di casa abbastanza presto per entrare nel Club Italia. La mia famiglia mi ha sempre seguito e sostenuto. La scelta americana la devo anche alle possibilità date da papà e mamma”.

Cos’ha Davide di papà Andrea e di mamma Novella?

Bella domanda. Di papà ho quello che in America si raffigura nell’espressione ‘in love with the process’. Sono innamorato della progressione, e determinato a migliorarmi sempre. Per avanzare nella scala dei risultati da raggiungere. Di mamma ho preso l’emozionalità. Quando capita di rivedermi in campo vedo la passione, la grinta che mi porta a non arrendermi di fronte a nulla”.

Le hanno fatto pesare il fatto di essere un figlio d’arte?

Direi assolutamente no. Qualcuno, negli anni in cui giocavo in Italia, ha fatto qualche paragone sul modo di giocare. Ma non si è mai posto il problema. Abbiamo ruoli diversi e abbiamo intrapreso strade, scelte e percorsi diversi. Ho sempre guardato papà con ammirazione per ciò che ha vinto, ma non mi ha mai influenzato nelle scelte. Mi ha semmai accompagnato e sostenuto”.

Lei è da due anni sotto la lente di ingrandimento anche in Italia. Ha pensato di tornare?

Per ora sono contento della scelta fatta. Certo, penso di voler tornare a giocare un giorno a giocare nel campionato del mio paese. Ma non ho fretta e non faccio scelte avventate. In America sto facendo un ottimo percorso, credo che un giorno tornerò con un bagaglio diametralmente diverso”.

In cosa si differenzia l’esperienza?

Nel metodo. La pallavolo statunitense ti insegna l’indipendenza. Anche nello sport e nella carriera. Come nella vita, è da te stesso che deve venire lo stimolo per andare al di là del campo e degli allenamenti. Non hai qualcuno che ti segue nello stretching o in palestra. È qualcosa che parte dal tuo bisogno e dalla tua volontà. La trovo una lezione molto importante”.

È diventato celebre sui social per una sua giocata alla Ngapeth. L’emulazione la spaventa?

“(ride, n.d.r.) No, ma siamo atleti molto diversi. Quello è stato un momento in cui ho sperimentato, ma il mio non è un gioco così sperimentale come quello di Earvin. Credo però che una parte di quell’estro ci sia anche nel mio gioco. Cerco di introdurre dei colpi nel mio repertorio, adesso che posso sperimentare di più”.

A parte la famiglia, cosa le manca dell’Italia?

Il cibo. E la convivialità. Quando mamma è venuta a trovarmi ha cucinato la carbonara per i miei amici più stretti. È stato un bel momento di convivialità. Non mi capita di averne tanti nella vita di squadra, anche perché durante l’anno non si vive assieme ‘h24’ così come capita in un club italiano, dove si sta spesso tutti assieme”.

La nazionale. Che rapporto ha con la maglia azzurra?

Ci tengo molto. Ho gravitato per mia fortuna nelle nazionali giovanili ed è stata un’esperienza importante, vissuta con grande rispetto. Ora la nazionale seniores è un obiettivo. Cerco, anno dopo anno, di farmi trovare pronto per il momento in cui spero di poterla conquistare appieno”.

ARGOMENTI CORRELATI

CONDIVIDI SUI SOCIAL

Facebook

ULTIMI

ARTICOLI