Non è per nulla scontato dare una definizione di talento nella pallavolo, né come misurarlo: è qualcosa di vago, astratto, ci sfugge dalle mani come se provassimo ad afferrare un’anguilla. Questo perché il talento è spesso descritto attraverso le sensazioni che suscita in chi lo guarda, piuttosto che una serie di attributi dello stesso: è perciò un concetto altamente soggettivo. Ecco perché parlare oggi di Kamerynn “Kami” Miner oggi come la next big thing della pallavolo mondiale può esporci al rischio di un’euforia che potrebbe sgonfiarsi e scemare già tra qualche settimana, o mese, lasciando il ricordo un po’ imbarazzante di quella volta che non ci siamo saputi controllare.
Eppure, questa ventenne palleggiatrice statunitense della Stanford University, figlia dell’ex giocatore NBA Harold Miner, sembra essere davvero un diamante, neppure troppo grezzo, destinato presto a rivelarsi in tutta la sua brillantezza. Scopriamola nella nostra intervista esclusiva.
Kami, raccontaci qualcosa di te, del tuo carattere e della tua storia.
“Il mio nome è Kami Miner e sono una palleggiatrice del secondo anno – quasi terzo – alla Stanford University. La mia famiglia è composta da quattro persone: mio fratello minore si chiama Brayden, mentre i miei genitori Pamela e Harold Miner. Può darsi che qualcuno abbia già sentito parlare di mio padre perché è stato un giocatore di basket in NBA e fa parte della Hall of Fame della University of Southern California. Sono nata e cresciuta a Las Vegas, in Nevada, ma mi sono trasferita a Redondo Beach, in California, nel 2017 quando ho iniziato a frequentare il liceo. Gioco a pallavolo da ormai 10 anni e quando non sono in palestra mi piace dilettarmi in cucina. Cucinare per amici e familiari è sempre stata una mia grande passione e penso che sia un hobby che rifletta al meglio il lato creativo della mia personalità. Chi mi conosce bene probabilmente mi descriverebbe come una persona un po’ sciocca, che cerca sempre di fare ridere gli altri, ma è estremamente competitiva e determinata in tutto ciò che fa“.
Com’è nata la tua passione per la pallavolo? È stato qualcosa di naturale, nonostante che tuo padre sia stato un grande cestista?
“Amo il volley perché è uno sport di squadra e mi è sempre piaciuto il ruolo dello spirito di gruppo nei successi di un team. Curiosamente, la pallavolo non è stata la prima disciplina che ho praticato. Infatti, fino ai 9 anni ho giocato a tennis e a calcio. Mi sono innamorata del volley a 10 anni, quando sono entrata a far parte della mia prima squadra. La carriera da cestista di mio padre ha influenzato il mio percorso promuovendo un rapporto sano con lo sport, ma non nel modo in cui la maggior parte della gente potrebbe pensare. Infatti, non sono mai stata costretta o incoraggiata a giocare a basket. Mio padre voleva solo che la determinazione e il senso di competitività, che mi ha trasmesso fin da piccola, mi guidassero in ogni ambito della vita“.
Com’è stato il tuo percorso da giocatrice finora?
“Questa domanda mi fa sempre emozionare perché, se ripenso alla mia carriera pallavolistica fino ad ora, ho la sensazione di vivere un sogno ad occhi aperti: è da quando avevo 11 anni che coltivavo il sogno di ottenere una borsa di studio per giocare a livello collegiale. Ora sono una palleggiatrice, ma non è sempre stato così. Infatti, ho iniziato come centrale, poi sono diventata una ‘six rotation player’. Un giorno, però, in occasione di un torneo 4 vs 4 in cui mi divertivo a giocare da regista, la direttrice del mio primo club, April Chapple, mi fece notare che avevo buone mani. Ero solo una 14enne, ma da quel momento mi sono innamorata del ruolo di alzatrice, soprattutto perché si adatta perfettamente al mio carattere di persona calma, a cui piace prendere in mano le situazioni in cui si trova.
In realtà, il percorso per diventare la palleggiatrice che sono oggi non è stato facile, anche perché la maggior parte delle persone vede solo atletismo in una giocatrice di colore. Non pensa mai di schierarla in cabina di regia perché non comprende che tra le nostre qualità ci possa essere qualcosa che va oltre ad una corporatura atletica. Basti pensare che la pallavolo ha una lunga tradizione di giocatrici di colore etichettate come centrali o schiacciatrici. Dunque, penso di avere avuto la fortuna di essere stata circondata da persone che hanno sostenuto la mia crescita e rispettato il tempo necessario affinché diventassi una buona palleggiatrice“.
Come mai hai scelto proprio la Stanford University?
“Stanford è speciale per molte ragioni, ma in particolare per le persone che studiano, insegnano e lavorano in questo ateneo. Ogni tanto mi capita di scherzare sul fatto che non c’è un altro posto in cui puoi trovare gente che fa importanti scoperte o studi nel proprio campo di lunedì e partecipano al ‘Fountain Hopping’ di sabato (la tradizione del salto tra le fontane è simbolo di una cultura apparentemente divertente e rilassata tipica della California, n.d.r.). La mia esperienza a Stanford è in gran parte incentrata sulla pallavolo, ma c’è dell’altro. Infatti, sono una studentessa iscritta alla facoltà di Economia che al termine della sua carriera sportiva sogna di entrare nel mondo del business.
Quando a 10 anni ho cominciato a giocare a pallavolo, non avrei mai potuto immaginare di arrivare a frequentare la Stanford University. È buffo pensare che i miei genitori dovettero costringermi a visitare il campus quando ero al primo anno di liceo, per poi piangere perché volevo restare lì ancora un po’. Per me rappresentava il posto in cui avrei potuto inseguire le mie passioni al di là della pallavolo, e allo stesso tempo partecipare al campionato nazionale e prepararmi alla mia carriera da professionista. Posso dire con assoluta certezza che non c’è altro ateneo in cui avrei voluto trascorrere i miei quattro anni di college“.
Quest’anno Stanford ha sfiorato le Final Four, alzando bandiera bianca contro San Diego nell’Elite Eight. Qual è il bilancio dell’ultima fall season?
“Il 2022 è stato un anno di grande crescita per la nostra squadra, perché abbiamo capito ciò che serve per arrivare alle Final Four, con la speranza poi di vincere il campionato nazionale. Il nostro rigoroso programma di lavoro nella pre-season ci ha permesso di impostare al meglio l’annata e identificare i nostri punti deboli. Così, durante l’autunno, abbiamo potuto lavorare ogni giorno per migliorare gli aspetti meno positivi e, al netto degli infortuni, sono orgogliosa del nostro percorso. Dopo la vittoria della nostra Conference siamo arrivate al torneo NCAA con grande slancio, anche per il fatto di essere una delle quattro teste di serie. Perdere contro San Diego nell’Elite Eight è stato a dir poco doloroso e sono certa che anche le mie compagne non vogliano più provare quella sensazione. È stata una sconfitta che ci ha insegnato tanto e soprattutto ha rivelato in cosa dobbiamo crescere per arrivare fino in fondo.
Da qualche settimana, abbiamo iniziato il periodo di allenamento primaverile e mi sembra che tutte le giocatrici abbiano una grande voglia di migliorare individualmente per massimizzare il potenziale della squadra in vista della pre-season che inizierà tra meno di quattro mesi. Sono molto carica per la prossima annata e non vedo l’ora di vedere cosa saremo in grado di fare. Il nostro obiettivo di vincere il campionato nazionale è ormai noto a tutti, ma sappiamo che per raggiungere questo traguardo c’è una lunga strada da percorrere. Perciò, sarà importante procedere passo dopo passo“.
Grazie alle tue ottime prestazioni sei stata inserita nell’All-Conference team e hai vinto il premio di “Pac-12 Setter of the Year”. Cosa significano per te questi riconoscimenti?
“È stato un grande onore ricevere questi premi, che sono la diretta conseguenza del lavoro che ha fatto tutto il team. Però, ottenere riconoscimenti non è né il mio focus né il mio obiettivo. Semplicemente lavoro ogni giorno per essere la miglior palleggiatrice e la miglior compagna possibile, in modo che la squadra possa continuare a crescere e alla fine raggiungere il sogno di diventare campione nazionale“.
Come ti descriveresti come palleggiatrice? Hai qualche modello di riferimento?
“In generale, sono una giocatrice dall’atteggiamento molto equilibrato: secondo le mie compagne, trasmetto calma e tranquillità nei momenti più stressanti delle partite. Da palleggiatrice ci tengo molto a giocare in modo aggressivo e a sfruttare il mio atletismo per impostare il gioco senza sovraccaricare di pressione le attaccanti. Sono tante le professioniste che seguo con attenzione, ma le mie preferite in assoluto sono Joanna Wolosz e Maja Ognjenovic. Cerco sempre di migliorare il mio gioco prendendo spunto da quello che fanno queste grandi alzatrici, soprattutto nella gestione dell’attacco“.
Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto durante la tua carriera? “Everything starts with the feet“?
“Forse sono di parte, dal momento che ho la fortuna di avere un genitore che è stato un atleta professionista, ma il miglior consiglio che abbia mai ricevuto me l’ha dato proprio mio padre. Anche se potrebbe sembrare banale, nei momenti più difficili del mio percorso mi ha sempre ripetuto: ‘Il duro lavoro non passa inosservato a Dio’. È una citazione che più volte mi torna in mente quando sono al lavoro per raggiungere un obiettivo. Invece, ‘Tutto parte dai piedi’ è una frase abbastanza divertente, detta sempre da mio padre, che cerco di non dimenticare mai durante i miei allenamenti“.
Quali sono i ricordi più belli delle tue esperienze con le nazionali giovanili statunitensi?
“Ho avuto la fortuna di partecipare ad alcune competizioni internazionali, tra cui anche i Campionati del Mondo giovanili. Queste esperienze mi hanno portato in Honduras, Egitto, Paesi Bassi e Belgio, permettendomi di conoscere nuove culture e soprattutto gareggiare a un livello molto alto. Il ricordo più bello con la nazionale statunitense è la vittoria del Mondiale Under 18 nel 2019 a Ismailia City, in Egitto: prima di allora, gli USA non erano mai riusciti a raggiungere un risultato così prestigioso in quella categoria“.
Quali sono i tuoi sogni nel cassetto, dentro e fuori dal campo?
“Per quanto riguarda la mia carriera pallavolistica, dopo il college spero di andare all’estero a giocare a livello professionistico e di essere chiamata dalla nazionale statunitense. Il mio obiettivo più grande è di entrare a far parte della squadra olimpica e gareggiare per vincere la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Los Angeles 2028. Una volta appese le ginocchiere al chiodo, vorrei conseguire un master in Business e poi iniziare il mio percorso lavorativo formale. Al momento, però, sto ancora cercando di capire come utilizzare al meglio la mia futura laurea in Economia“.
Quando un giorno smetterai di giocare e guarderai la tua carriera in retrospettiva, per cosa vorresti essere ricordata?
“Per molte cose. In primo luogo, spero che la gente mi ricordi come una giocatrice sicura di sé, coraggiosa e libera, e ripensi alle emozioni che ha provato quando mi ha visto in campo. Vorrei essere ricordata anche come un ‘bagliore di luce’ per le ragazze di colore che sognano di diventare palleggiatrici: infatti, non è così facile lavorare per il raggiungimento dei tuoi obiettivi se non ci sono altre persone simili a te da prendere come modelli di riferimento. E io spero proprio di diventare una fonte di ispirazione per le giovani ragazze di colore“.
di Alessandro Garotta