Carlo Gobbi, voce storica della Gazzetta. Giornalismo e pallavolo, tra passato e futuro

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Di Paolo Frascarolo

Carlo Gobbi non è solo un giornalista. Uomo di sport, amante della pallavolo, quella giocata e quella parlata. Un professionista dalle diverse sfumature del panorama sportivo nazionale: dall’hockey alla ginnastica, dal judo al rugby.

Certo, la pallavolo è per lui una passione che non ha mai nascosto in mezzo secolo di carriera. Anni in cui il mestiere è mutato, nonostante valori e deontologia siano rimasti pilastri di una professione fatta di passione.

Inventore del Trofeo Gazzetta, ha assistito ad oltre 6 Mondiali e 15 Europei di pallavolo. Ai microfoni di Volley NEWS ha raccontato pillole e aspetti di un percorso che lo hanno portato ad essere riconosciuto tra le migliori penne della storia di questo sport: deontologia, giovani giornalisti e l’evoluzione del 9×9, toccando anche temi vicini come la Nazionale e il caso Modena.

L’anno scorso è stato premiato per i suoi 50 anni di appartenenza all’Ordine. Quanto è cambiato in questi anni questo mestiere, ultimamente troppo spesso etichettato negativamente?
“L’unico aspetto negativo che riconosco rimane quello dell’accesso alla professione. Quando sono entrato, questo mondo non era così ostico e complicato. Ai tempi mi definivo un “abusivo”: entravo in un giornale, lavoravo silenziosamente su una piccola scrivania, facendo la vita del quotidiano senza essere assunto, in attesa di un posto. Però nel bene o nel male una chiamata sapevo sarebbe arrivata. Oggi la situazione è molto più complicata”.

E’ mutato l’approccio a questo mestiere?
“E’ cambiato il modo di lavorare. Sono entrato in Gazzetta dello Sport nel 1961, quando eravamo pochi. Lavoravi con il piombo, con i tipografi che ti instradavano alla professione, un po’ come gli alpini formavano gli ufficiali. Poi le nuove tecnologie hanno cambiato questo processo, è venuto a mancare il contatto con l’operaio, con la componente dinamica e operativa. I giovani, invece, ora arrivano da scuole di giornalismo che sono efficaci, e quindi sono molto preparati sulla parte tecnologica. Il personale è aumentato, così come la stratificazione della redazione, con diversi capi (redazione, servizio, etc), che una volta scrivevano, ora spesso firmano e basta…”.

Nonostante le difficoltà, rimane una professione mossa dalla passione…
“Senza la passione, questo lavoro non esisterebbe. Non è un lavoro come gli altri. Passione, spirito di sacrificio, amore per il proprio giornale e voglia di fare. La Gazzetta dello Sport è stata la mia vita, oggi sono cambiati gli uomini e non posso più affermarlo. Eravamo una famiglia, all’interno della quale potevo contare su colleghi e fratelli come il caro Daniele Redaelli. Una bella truppa, insomma. Oggi fortunatamente il mondo della pallavolo in Gazzetta è trainato da un condottiero come Gian Luca Pasini. E’ un leone, si batte per i diritti di questo sport, a cui fornisce un’elevata visibilità”.

L’Italia si appresta a vivere il suo Mondiale in casa. Come vede il percorso dei ragazzi di Blengini?
“La vedo molto difficile. Dopo l’esito della Volleyball Nations League, ho sentito critiche eccessive. Ci vuole tempo: Velasco è stato un grande allenatore ma ha trovato i giocatori già pronti. L’attuale CT ha pochi super assi, la pallavolo è diventato uno sport di potenza, non conta solo la tecnica. E’ uno sport davvero fisico. In questi senso la Russia mi ha impressionato, tanti giovani titolari che sanno giocare benissimo. Sulla carta potrebbero arrivare molto in fondo. Sarà veramente dura”. 

Reputa ci sia qualche falla nel sistema?
“La SuperLega non può continuare a prendere 6-7 stranieri per squadra. Si finirà per rovinare la pallavolo italiana. Non stiamo formando più nessun giocatore. Dietro ai ragazzi di Blengini non c’è nessuno. Gli italiani forti giocano in A2 o in Serie B. Stiamo eliminando i vivai. Negli anni ’80 e ’90 vi era un solo giocatore straniero per squadra. A noi fa comodo Juantorena, ma sappiamo tutti che non è italiano: da regolamento può giocare, ma abbiamo bisogno di giovani da far crescere. Sono loro il nostro futuro.”. 

Qual è la Nazionale a cui si sente più legato?
“Ho tanti amici in tutte le nazionali. Nella Nazionale che ha vinto nel ’70 a Torino ho coltivato grandi rapporti di amicizia. Sono ovviamente più legato alla Nazionale dei Fenomeni che ha aiutato noi giornalisti a battere questo muro tra la pallavolo e gli altri sport maggiori. La finale di Atlanta del ’96, però, rimane ancora un grande dispiacere…”

Impossibile non chiederle di Modena…
“Verrebbe facile pensarlo. Però attenzione, mi sento molto più milanese, che modenese. Devo dire che Catia Pedrini è stata di un’abilità diabolica, chiudendo il vaso di Pandora delle critiche degli atleti verso l’ex allenatore Stoytchev. L’errore però è stato in origine. Non dovevano essere ignorati i segnali burrascosi pre stagionali. Ora Modena ha due motivi per sorridere: Velasco non è bollito, come molti dicono, e il grande Cantagalli è anche lui una certezza. Speriamo non ci siano più situazioni spiacevoli come l’ultima rivolta dei giocatori, un episodio francamente non degno della storia di Modena”.  

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