Le Storie di Stefano Benzi: "Sport, televisione e ascolti: di chi è il merito?"

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Di Stefano Benzi

Quando alcune settimane fa ho letto un documento nel quale si riportavano ai meriti della Federazione gli ottimi ascolti ottenuti dall’Italia maschile sulla Rai nel corso degli Europei, mi sono suonate le orecchie.

Parto da me, dalla mia esperienza: qualcuno forse sa che per molti anni sono andato in onda con diverse trasmissioni televisive su più reti anche se il mio programma per eccellenza fu WWENews, un quotidiano dedicato al wrestling nato per scherzo e durato cinque anni e più di 1500 puntate. L’idea era di portare in onda il wrestling WWE sdoganandolo dalla definizione di ‘cartone animato’ o ‘solita stupidaggine americana’. In breve il wrestling è una delle forme sociologicamente di maggiore successo negli Stati Uniti per l’imprinting tra padre e figlio: il papà spiega al proprio ragazzo le cose della vita, belle e brutte, successo e sconfitta, amicizia e tradimento, vita e morte, prendendo in prestito i personaggi di questa fiction elaboratissima che va avanti ininterrottamente da anni con autori da favola e interpreti leggendari.

L’indice di ascolto era il mio incubo anche se il mio direttore di rete, una persona molto intelligente, che mi conosceva molto bene e cui va quasi tutto il merito di quanto di buono ho fatto a Sportitalia, mi diceva sempre fregatene, sono numeri: tu devi pensare al contenuto, è l’unica cosa che ti deve interessare”.

Quando WWE nella fascia 19.30 sfondò arrivando a uno share impensabile per Sportitalia e battendo notiziari, giochi a quiz e persino Camera Cafè dei miei adorati Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu mi sentii in dovere di scrivere alla massima dirigenza della WWE facendo loro i complimenti e ringraziandoli. Mi arrivò una mail che conservo ancora come una reliquia che mi diceva… Grazie a te, sei stato tu a convincerci che l’idea era buona e tu sei uno storyteller molto affidabile e credibile”. Credo che, a parte il titolo di cavaliere dello sport e alcuni premi che ho vinto e dei quali non si ricorda più nessuno, sia stata la soddisfazione più grande della mia vita.

Dunque… il merito è del conduttore, del produttore del format, del vestito televisivo che si dà a un contenuto grezzo. Fabio Fazio si è affermato su RaiUno perché il suo programma ha successo. “Forum” continua a fare ascolti incredibili nonostante la lunghissima conduzione di Rita Dalla Chiesa sia passata a Barbara Palombelli perché il pubblico è fidelizzato a questa format di diatriba familiare in studio. Ma più seriamente il TG di La7 ha quintuplicato i suoi ascolti dopo sei mesi di cura Mentana.

Quindi… io non mi aspetto che le Federazioni si occupino di televisione, anche se disgraziatamente c’è qualcuno che lo fa togliendo spazio, contenuti e guadagno alle reti televisive. Io da una Federazione mi aspetto la miglior Nazionale possibile, un messaggio vincente anche quando si perde, unità, coesione, piacere di giocare e di stare insieme. Mi aspetto reti, palloni, racchette, clavette, nastri e cerchi in tutte le palestre di tutte le scuole: ore e ore di lezioni gratuite nel doposcuola.

In Francia, anni fa, preoccupati dall’indolenza delle nuove generazioni e da una scarsa adesione ai programmi sportivi, lanciarono il “pomeriggio sportivo”. Il giovedì tutti i campi e le strutture sportive all’aperto o indoor erano a disposizione dei ragazzi di scuole elementari e medie superiori.

Quindi, care Federazioni tutte, nessuna esclusa, occupatevi meno degli ascolti e non fate gli editori o gli autori televisivi, non è questo il vostro mestiere: intervenite se mai sulla qualità del prodotto che viene diffuso perché dal punto di vista editoriale il margine di miglioramento è ampio anche semplicemente sulle telecronache. Preoccupatevi del contenuto, partendo dal basso: dalla base dei nostri ragazzi.

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Le storie di Stefano Benzi

Di Stefano Benzi

Diciamo la verità… quando quella lontana estate del 1984 si diceva “c’è la pallavolo, dove la andiamo a vedere”? Non eravamo molto consapevoli: un po’ perché quella non era ancora la generazione dei fenomeni che sarebbe arrivata di lì a qualche anno e un po’ perché eravamo ancora ubriachi del Mondiale di calcio vinto nel 1982. La pallavolo fino a quel momento era un parente povero e poco considerato: i canali televisivi che potevano trasmettere sport erano esclusivamente quelli della Rai. E dunque due… e mezzo: Il resto lo scoprivi alla spicciolata un po’ come il tennis o il nuoto. Eravamo impazziti per Novella Calligaris o per Adriano Panatta quando arrivò alla finale del Roland Garros. Ma il concetto di virata, di rovescio e di slide non erano per tutti. Per non parlare della vela: una volta ogni tot di anni ci ricordavamo di essere un popolo di navigatori per via di Azzurra, Luna Rossa o del Moro e si faceva la notte in bianco. Ma il senso di “cazza la randa” o di “bolina” non ci è ancora del tutto chiaro.

Per la squadra di pallavolo del 1984 non eravamo preparati: chi se l’aspettava una prodezza del genere. All’epoca lavoravo già e ricordo perfettamente uno dei miei capi – disperato – alle prese con un pezzo e un titolo sbraitava da infarto: “Come diavolo si dice – urlava in redazione – schiacciata o smash?”

A Los Angeles uno dei supertestimonial era Roberto Duran, straordinario pugile panamense che viveva in California e che era cresciuto al Chorillo, nella favela della Casa de Pedra. Da qui il suo nome: “Mano de Pedra”. Nel 1984 era all’apice: si era frantumato una mano combattendo contro Marvin Hagler (un vero animale da ring) dunque alle Olimpiadi faceva il personaggio e presenziava a tutte le gare più interessanti. Vedendo la squadra azzurra contro il Canada Duran disse… “Esta sì es una mano de pedra….”

La mano di pietra era quello di Franco Bertoli: i giocatori del Canada confessarono che quando Dall’Olio apriva lo schema su di lui la gara era a chi si spostava prima da una parte per evitare la botta. Era la generazione dei geometri: mi piace chiamarla così perché erano giocatori straordinari, certamente non ricchi, ma di feroce determinazione e di grande coraggio. Furono loro a porre basi di quanto sarebbe arrivato dopo.

Ottennero uno storico terzo posto, la prima medaglia olimpica della pallavolo italiana dopo una semifinale persa e giocata a testa alta contro il Brasile. Bertoli ha usato il granito per vincere – vado a memoria – anche sette titoli italiani, due coppe campioni e mi pare cinque Coppa Italia. Poi ha fatto l’allenatore, ricordo delle belle interviste con lui a Roma nel 2000, il dirigente e l’amministratore pubblico. Appassionato di statistica, è un grande studioso di numerologia. Un uomo simbolo cui hanno fatto una cattiveria: qualcuno si è introdotto in casa sua e gli ha svaligiato l’appartamento portandosi via anche la medaglia di bronzo di Los Angeles 1984. Anche se fosse d’oro il suo valore sarebbe davvero minimo: le medaglie sono placcate e simboliche, hanno un peso solo per chi le ha vinte e per chi eventualmente le colleziona.

Cari signori ladri, a Natale, siamo tutti più buoni… cogliete una buona occasione per fare una bella figura. Fate un pacchettino, mi raccomando con tanta bella carta per evitare gli urti, e spedite il tutto a Franco Bertoli, presso C.O.N.I. Largo Giulio Onesti 1 Roma. Là sapranno come recapitarla a una mano di pietra che per vostra fortuna non avete trovato in casa mentre stavate facendo pulizia. Perché Bertoli ha sessant’anni ma se li porta alla grande; è di Udine – gran testone – è 1.92 per novanta chili di muscoli e le mani di granito le ha ancora. Io uno così lo vorrei avere tutta la vita dalla mia parte.

E poi, che ve ne fate di una medaglia che non meritate?