Rhamat Alhassane: è bello quando i premi piovono su chi se li merita

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Di Stefano Benzi

Con il lavoro che ho scelto, o che forse ha scelto me, ho imparato ben presto che nella vita c’è chi non merita ma si prende quanto spetterebbe ad altri che invece saranno respinti con danni. La cosa è oltremodo fastidiosa quando capita a te ma diventa insopportabile quando accade ai più giovani. Semplifico: mi è capitato spesso nel mio mestiere di dare opportunità a persone che ne hanno abusato facendo una carriera brillante a suon di pugnalate e sgambetti. Altri che invece sono rimasti al loro posto mi hanno detto grazie ma non si sono mai più mossi dalla loro educata carriera in retrovia. Il grazie nel mio mestiere non esiste: nemmeno se regali una professione a gente che in teoria non ha titolo, ordine e grado per appropriarsene.

Nello sport non è molto diverso: raccomandati, amici, amici degli amici, paraculati dal caso o dal manager che passa in quel momento sono all’ordine del giorno. I meriti purtroppo contano sempre relativamente e solo per soggetti eccellenti che a loro volta raccomandano, spingono e appoggiano. Più lo sport diventa di nicchia, più la carriera è corta, meno ricco è il guadagno ed ecco che spunta la gente che soffre in silenzio e che di solito merita molto più di quanto ottiene.

Ma ogni tanto ci sono anche storie che vanno raccontate: perché finalmente vediamo dei giovanissimi che iniziano nel modo migliore indipendentemente da come finiranno. Questa è la storia di Rhamat Alhassan, meravigliosa ragazza di origine ghanese che ha vissuto un’esistenza molto complicata e che ha messo sempre davanti a tutto la dignità e la famiglia. A 13 anni Rhamat è una ragazza attivissima dal punto di vista sportivo: fa ginnastica e atletica, nuota, ma soprattutto – aiutata dall’altezza – gioca a basket con risultati eccellenti. Un pivot coi fiocchi per la sua scuola con la quale vince parecchio: è alta 1.84, ha la fame di un lupo e non mette su un etto. La mamma deve organizzarsi con le proteine e qualche carboidrato in più perché Rhamat si allena quasi quattro ore al giorno e brucia tutto. Studia con impegno, è brava.

Una notte il telefono squilla nel piccolo appartamento di Glengarden, Maryland, un sobborgo di seimila abitanti nella lontana periferia a nord est di Washington: sono le due del mattino e chiamano dall’altro capo del mondo. Il papà di Ram è morto: un grave attacco d’ulcera lo ha stroncato mentre lo trasferivano in ospedale. Era in Ghana, il paese d’origine della sua famiglia, per lavoro. Rhamat a tredici anni si ritrova orfana: a quell’età nessuno vuole maturare così in fretta ma lei e sua mamma, che lavora part-time, devono cambiare vita. Una settimana dopo i funerali la tredicenne comincia a lavorare, dove capita: ripetizioni, commissioni, tavola calda. Continua a giocare a basket ma abbandona tutti gli altri allenamenti. Nel frattempo prosegue gli studi, va sempre meglio anche perché sa di non potersi permettere errori se vuole davvero andare all’Università: non può contare solo su altezza, fisico e talento.

Tra un lavoro e l’altro Rhamat arriva alla Holy Cross Academy: dovrebbe giocare a basket ma una sua amica è lì per una partita di pallavolo e dunque decide di dare un’occhiata. È amore a prima vista non solo da parte sua ma anche dello sport: l’allenatore la prova e la vede spiccare il volo una, due, tre… cinquanta volte. Sempre coordinata, sempre precisa. È veloce e potente, maneggia la palla con il talento di chi sembra non aver fatto mai altro: in due settimane impara tutto. Tagli, tempi, schemi. Parte subito da centrale e fa un macello. Ram gioca con una dedizione e una furia agonistica impressionante e nemmeno fosse una veterana in meno di un anno è già alle selezioni nazionali. Un talento tardivo di straordinario potenziale. Le compagne la amano subito, il suo coach di più: passa soltanto un anno e c’è da scegliere… basket o pallavolo? Con quale sport vuoi provare a sfondare all’Università?

“Volley, è la cosa che mi piacer di più” dice Ram, che ora è una donna di diciotto anni ed è alta 1.95.

“In bocca al lupo – le dice il coach – io non saprei più cosa insegnarti”.

In quattro anni con la maglia arancio-blu dei Florida Gators Ram diventa una delle giocatrici NCAA più forti di tutti i tempi. Viene insignita per due anni consecutivi dell’Honda Sport Award, una onorificenza di valore assoluto e nel 2017 vince anche il titolo di SEC Player of the Year. Con la sua potenza e il suo entusiasmo trascina alla finale Florida chiedendo forsennatamente il pallone in una storica semifinale che Ram vince praticamente da sola. Ma in finale non basta, Florida perde in due gare da Nebraska, oggettivamente più forte.

La ragazza, venti punti a partita di media, saluta la sua facoltà con oltre 1600 punti a terra, 600 dei quali a muro. Ah, si laurea anche in produzione televisiva e telecomunicazioni.

Ora Ram parla tre lingue, ha una laurea e un talento riconosciuto. Le toccherà imparare a parlare anche giapponese perché il NEC Red Rockets, uno dei colossi della J-League femminile, l’ha voluta come unica straniera non asiatica consentita del suo roster. Finalmente guadagnerà un sacco di soldi: “Per prima cosa compro casa a mamma, una bella casa con giardino: e cambieremo auto”. Lei per festeggiare si rifarà le lunghissime treccine africane che ha fatto crescere poco a poco dopo che è mancato papà.

Ram, la ragazzina che lavorava, studiava e si allenava per non correre rischi e non far mancare niente a mamma, è diventata grande in fretta. Ora è un gigante. E ritornando a quanto ho scritto in alto, mi piace pensare che a certe persone non servano conoscenze né fortuna: perché all’attico ci arrivano anche da sole.

Comunque sia, Ganbarou Ram. Significa buona fortuna in giapponese: te la meriti – comunque – davvero tutta.

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