Molly McCage non passa mai inosservata, e non soltanto per i suoi 191 centimetri di altezza. C’è qualcosa nel suo modo di stare al mondo che cattura subito l’attenzione: la calma di chi ha imparato a conoscersi davvero e la forza di chi non ha più paura di “sentirsi a proprio agio nel proprio spazio”. Sul campo è una presenza magnetica, potente e granitica al centro della rete; fuori, è una voce nuova, capace di parlare di moda, sostenibilità e identità con una sincerità disarmante.
Dopo le prime esperienze da professionista in Germania e il ritorno negli Stati Uniti, dove sta vivendo una vera e propria seconda vita sportiva, McCage ha trovato una nuova casa nel dialogo tra sport e stile, tra corpo e libertà. Oggi è una delle figure più interessanti della pallavolo americana, perché riesce a unire due mondi: quello dell’atleta e quello della donna che non ha mai rinunciato alla propria creatività.
L’abbiamo incontrata virtualmente per conoscerla meglio e per farle raccontare la sua storia: di come il volley e la moda abbiano contribuito a costruire la sua identità, di come si sviluppa la fiducia nel proprio corpo e nella propria voce, e di cosa significhi, per lei, “sentirsi davvero a proprio agio nel proprio spazio”, dentro e fuori dal campo.
Molly, ripensando alla tua infanzia, in che modo l’amore per lo sport e per la moda ha influenzato la persona che stavi diventando?
“Ero il tipo di bambina che preparava sempre gli outfit la sera prima: avevo quello per la scuola, quello per la pallavolo e ovviamente il pigiama. Lo facevo ogni sera, senza eccezioni. Credo che questo abbia sempre fatto parte di me. Ho portato questo senso dello stile anche nella mia vita da pallavolista. Sono sempre stata una ragazza ‘femminile’, è qualcosa di naturale per me. Ero quella con fiocchi nei capelli, calzini coordinati e spille attaccate allo zaino. La moda è sempre stata una mia forma di espressione personale. Quando ho visto come NBA e WNBA fanno le loro ‘tunnel walk’, ho pensato: ‘Wow, sarebbe fantastico se la pallavolo facesse lo stesso’. Poi mi sono detta: perché non farlo da sola? Perché non presentarmi al palazzetto con un outfit che mi faccia sentire sicura di me e pronta a dare il massimo? È qualcosa che fa parte di chi sono, in campo e fuori”.
Sei cresciuta in Texas in una famiglia di atleti. Quali valori o lezioni hai imparato dal tuo percorso sportivo e da chi ti stava intorno?
“Penso che fin da piccola, essendo la più giovane di cinque figli in una famiglia piena di atleti, sentissi di dover essere più brava degli altri. Dovevo essere perfetta. I miei genitori mi hanno iscritta a tantissimi sport: nuotavo, facevo atletica, giocavo a basket, ero cheerleader e ballavo. Facevo davvero tante cose. La pallavolo, stranamente, era lo sport in cui non ero brava. Ricordo i miei primi allenamenti: non riuscivo nemmeno a servire sopra la rete, ed era proprio evidente che ero peggio delle altre. Tornando a casa in macchina con mio padre, piangevo dicendo: ‘Non posso tornarci. Sono troppo in imbarazzo. Non posso giocare in questa squadra. Non è divertente essere così scarsa’. Mio padre andò a parlare con il mio allenatore, che disse: ‘Assolutamente no. Dovrete strapparmela dalle mani. Lei deve restare in questa squadra. Intravedo il suo potenziale’. Da quel momento, in ogni viaggio in macchina, mio padre mi faceva sempre una domanda: ‘Ti sei divertita oggi?’. Non ‘Hai segnato punti?’ o ‘Sei migliorata oggi?’. Solo: ‘Ti sei divertita?’. Ho imparato a essere competitiva, certo, ma anche a trovare gioia nello sport. Il divertimento sta nel competere, dare il massimo e ridere con le compagne. Questo senso di gioia è rimasto sempre con me”.
Per te la pallavolo è più di un semplice gioco? Quando hai avuto questa percezione per la prima volta?
“Sì, assolutamente. A me è successo solo quando sono tornata a giocare. Mi ero ritirata nel 2019, dopo tre anni passati a giocare all’estero. Avevo anche detto no a un paio di offerte dall’Italia, perché sentivo di dover iniziare una nuova vita, trovare un lavoro ‘da adulta’ e voltare pagina. In quel periodo mi sembrava di aver perso il senso di scopo in campo. Avevo la sensazione che all’estero nessuno mi guardava davvero, ero solo lì a colpire la palla. Poi, dopo qualche mese, Athletes Unlimited mi ha chiesto: ‘Vuoi giocare a pallavolo qui negli Stati Uniti?’. La risposta nella mia testa era chiara: sì, voglio far parte di questo progetto e aiutare a far crescere la pallavolo negli USA. Erano solo sei settimane all’anno, quindi non tantissimo per una stagione, ma guardavo oltre a questa cosa. Speravo di poter dare il mio contributo alla crescita del movimento pallavolistico statunitense. Tutto ciò mi ha fatto capire che amavo ancora questo sport: non avevo smesso perché non lo amassi, avevo solo perso la strada. Ma avere l’opportunità di giocare negli Stati Uniti mi ha fatto dire: assolutamente sì. Quel momento è stato decisivo: quando mi hanno chiesto, ‘Vuoi aiutarci a farlo?’, io ho risposto senza esitazione: ‘Certo! Voglio giocare a pallavolo qui negli USA con le mie amiche'”.
Da bambina hai avuto una crescita a livello fisico molto rapida. In che modo la tua altezza ha influenzato il modo in cui ti vedevi, sia in campo che fuori?
“Sono sicura che tutti ci abbiamo pensato almeno una volta. Le ragazze con cui gioco sono quasi tutte alte, e mio padre è alto più di due metri. Mi ha sempre detto: ‘Devi portare la tua altezza con orgoglio. Sii sicura di te. È un dono’. Ci ho messo un po’ a capire davvero quanto fosse un dono. Alle medie e alle superiori i ragazzi dicevano cattiverie, ma io pensavo sempre: va bene, è un vantaggio che ho, devo sfruttarlo. Questa cosa è diventata ancora più chiara quando ho iniziato a giocare a pallavolo: lì vengo notata grazie all’altezza, quindi è davvero un dono. Ora che sono sempre circondata da persone alte, a volte non ci faccio caso a quanto sono alta. Ma quasi tutte le mie compagne di squadra lo sono, ed è una vera gioia. L’altezza è un dono. Oggi è anche più facile trovare vestiti che vanno bene, ma non è sempre stato così. Sono stata fortunata ad avere intorno persone che mi dicevano: ‘No, è fantastico. È un dono. Usalo, ma continua a migliorare anche negli altri aspetti del tuo sport. Non contare solo sull’altezza’”.
La società spesso fatica a vedere atletismo e femminilità come elementi compatibili nelle donne. C’è stato un momento in cui ti sei sentita pienamente libera di abbracciare entrambe queste dimensioni?
“Provo a pensare a un momento preciso… In realtà, risale a quando ero più giovane. Ricordo al college il ‘braid bar’ nello spogliatoio: ti sedevi e la mia compagna Nicole Dalton, che intrecciava i capelli, mi tirava indietro la frangia e mi faceva una coda alta. Era il mio look distintivo in quel periodo. Ora invece faccio le ‘bubble braids’. Per me, avere questa acconciatura è quasi come indossare il mio ‘trucco da guerra’ prima di entrare in campo. È sempre stato il mio modo di pensare: non mi è mai passato per la testa che essere femminile significasse essere meno forte in campo. È come un’armatura che indosso andando in battaglia con le mie compagne. Oggi, da adulta, sono più sicura di me. Mi diverto con il mascara viola, perché no? È divertente. Oppure un eyeliner a punta per abbinarlo all’outfit delle ‘tunnel walk’. È una forma di espressione personale, ed è fantastico poterlo fare anche mentre pratichiamo il nostro sport. Penso a tutte le giocatrici che hanno influenzato questo modo di esprimersi, anche indossando il rossetto in partita. Ricordo una giocatrice in Germania che metteva il rossetto scuro. All’inizio ci chiedevamo perché. Poi ho capito che stava benissimo e giocava in modo incredibile. Io invito chiunque si senta a suo agio a fare lo stesso: se uno stile ti rappresenta e ti fa sentire bene, mostralo senza paura e con sicurezza. Perché, alla fine, atletismo e femminilità possono andare di pari passo”.
Cosa significa per te “sentirti a tuo agio nel tuo spazio”? C’è stato un momento in cui ti sei resa conto che era qualcosa che ti dava forza e sicurezza, invece che essere intimidatorio?
“Penso che sentirmi a mio agio nel mio spazio significhi essere pienamente me stessa. Vuol dire essere orgogliosa di tutto quello che ho fatto per arrivare a quel momento. Significa sapere che c’è un motivo se sono qui, che c’è un motivo se sono stata scelta per questa squadra e per questa stagione. Essere a mio agio nel mio spazio vuol dire affermare me stessa ed essere pienamente chi sono. Credo che questa consapevolezza sia arrivata tardi nella mia carriera. Dopo essere tornata a giocare nel 2021, provavo molta vergogna per il mio ritiro e mi mettevo in dubbio: ce la farò ancora? Mi sentivo intimidita dal pensare di essere indietro. Ma non esiste un ‘tempo prestabilito’. Tornando, ho capito di potercela fare. Quella paura era solo nella mia testa. Così ho deciso di dare tutto me stessa, dal momento che il tempo a disposizione è limitato, e sentirmi a mio agio nel mio spazio significa riconoscere tutto il lavoro che ho fatto e mostrare a tutti cosa sono riuscita a costruire”.
Hai giocato in Germania, prima di ritirarti nel 2020, per poi tornare in campo nel 2021 negli Stati Uniti. In che modo ciascun capitolo della tua carriera, incluso il tuo ritorno, ha influenzato la tua crescita sia come giocatrice che come persona?
“In questa risposta vorrei condividere anche il lato più vulnerabile della mia storia. Ho davvero apprezzato il tempo trascorso in Germania. Ho vissuto a Stoccarda e Wiesbaden, la vita era abbastanza comoda e stabile, e sotto certi punti di vista è stata un’esperienza positiva. Eppure, mi sentivo persa… Avevo l’impressione che nessuno mi guardasse veramente, che non avessi uno scopo chiaro. Sentivo di rimandare qualcosa di più grande, ma era solo un’ansia che avevo creato nella mia testa. Non stavo ascoltando me stessa né riconoscendo quanto amassi davvero questo sport. Allo stesso tempo ero sposata, e quel matrimonio significava stabilità, vita nello stesso posto, niente distanza e impegno reciproco. Era la scelta giusta in quel momento, ma due anni dopo ho deciso di divorziare e di tornare a giocare a pallavolo. Scegliere me stessa e la mia carriera è stata una delle cose più importanti che abbia fatto: ho capito che l’unica persona su cui potevo contare ero io, e da lì ho deciso di dare tutta me stessa. La community della pallavolo è speciale, e il senso di scopo che ho trovato sul campo non l’ho mai trovato altrove. Ho avuto altri lavori, anche nello sport femminile, ma il mio posto resta lì, sotto rete. Tornare in campo mi ha permesso di essere me stessa e di condividere la mia storia, proprio come sto facendo ora”.
Hai costruito una forte presenza sui social media, condividendo di tutto: dai momenti in partita alla moda, fino ai contenuti sulla sostenibilità. Come cerchi di creare un legame con i tuoi follower e quale messaggio speri che colgano dai tuoi post?
“Oh, grazie mille! Sai, oggi i social media sono un gioco complicato, ma ho scoperto che il modo migliore per connettersi davvero con le persone è essere semplicemente se stessi, come se parlassi con loro di persona. Più condivido aspetti vulnerabili di me stessa, le piccole cose della mia vita quotidiana, e do uno sguardo su chi sono davvero e sulle mie passioni – che sia cercare di essere una buona cittadina del mondo o anche una cosa semplice come dove trovare jeans per persone alte – più la gente si sente coinvolta. Questo funziona soprattutto con le mie colleghe pallavoliste e con tutte le donne alte là fuori. Alle persone piace vedere autenticità, e i social la premiano. Il mio obiettivo è proprio quello di creare una community autentica. E poi adoro condividere la mia passione per la moda: anche nella quotidianità mi piace portare le persone a fare shopping. La scorsa settimana, ad esempio, ho accompagnato Juliann Faucette e Carli Lloyd per aiutarle a trovare il loro stile. Aiuto già diverse amiche a scegliere outfit, e se posso farlo anche sui social e dare una mano a qualcuno, è una grande soddisfazione. Per me i social sono una piccola piattaforma divertente dove condividere quello che amo”.
Moda ed espressione di te stessa sono temi centrali sulle tue piattaforme social. In che modo il legame tra stile e fiducia in te stessa ha influenzato il tuo modo di essere, sia in campo che fuori?
“Questa domanda mi fa venire in mente una cosa che recentemente mi ha chiesto la responsabile del broadcast di Athletes Unlimited: ‘Da dove viene tutta questa fiducia in te stessa?’. La mia reazione istintiva è stata: l’ho semplicemente creata perché ne avevo bisogno. L’avevo persa per un po’, e poi ho pensato: sono stanca di non averla, quindi sarò semplicemente me stessa e sceglierò le cose che voglio fare, sperando di dare lo stesso esempio anche agli altri. Credo che questo modo di pensare abbia influenzato anche il mio modo di vestire e di esprimermi attraverso lo stile. Indosso quello che voglio, e c’è anche un lato creativo in tutto questo. Mi piace davvero passare del tempo su Pinterest e mettere insieme diversi outfit. Ho un’amica che ora è stylist, e adoro confrontarmi con lei e prendere spunti. Insomma, tutto questo mi ha aiutata a capire che sei chi sei per un motivo, e puoi esprimerlo sia in campo che fuori. Nel volley non indossi ogni giorno il tuo outfit preferito, ma sei nella squadra per ciò che dai. Quindi devi fare del tuo meglio, perché è per questo che sei lì. Devi fare bene una battuta, e quello è tutto su cui puoi concentrarti in quel momento. Ma lo fai perché è il tuo ruolo e perché sei lì”.
Sui social parli anche di sostenibilità e consumo consapevole.
“Penso che tutto questo mi sia diventato chiaro nel 2020. In quel periodo credo che tutti noi abbiamo fatto un po’ di bilancio sul nostro modo di consumare. La prima cosa che vorrei sottolineare è che il vero cambiamento deve partire dalle aziende. Il mio approccio è cercare di condividere i messaggi in modo autentico, dicendo: fai la tua parte, ma non sentirti sopraffatta. All’inizio ero molto severa con me stessa. Ad esempio, niente carta da cucina, niente plastica, nemmeno un imballaggio. Ma poi ho capito che l’importante è controllare quello che puoi controllare. Se ci vogliono dieci minuti in più per informarti su come consumare meglio, comprare in modo sostenibile, scegliere prodotti in cotone biologico o fare commercio equo solidale, va bene. Ci sono siti e strumenti che ti possono aiutare. Una cosa fantastica della lega Athletes Unlimited è che ogni stagione possiamo sostenere una causa sociale. Nelle prime quattro stagioni ho scelto sempre cause legate alla sostenibilità. Collaborare con ‘1% for the Planet’ è stato incredibile.
“Parlare di questi argomenti nasce dal mio interesse e dalla passione che provo per queste cause. Se risuona negli altri, perfetto. Se aiuta qualcuno a riflettere su cosa consuma o a consumare meno, ancora meglio. Non voglio mai mettere pressione su nessuno, perché io stessa mi sono sentita sotto pressione in passato. Ma è qualcosa che mi interessa e cerco di guardare la realtà anche in modo più ampio: se posso essere una buona cittadina e incoraggiare gli altri a fare lo stesso, tutti insieme possiamo aiutare il pianeta a durare più a lungo”.
Considerando il tuo percorso nelle nuove leghe professionistiche americane, c’è qualche partita o esperienza che ha segnato un momento importante della tua carriera?
“Penso che ci siano diversi momenti, ma uno in particolare mi è rimasto impresso: quando Jordan Larson mi ha scritto su Instagram chiedendomi se volessi giocare a pallavolo professionistica negli Stati Uniti. All’inizio ho pensato: ‘Non è possibile’. La settimana successiva, però, abbiamo incontrato i fondatori di Athletes Unlimited e abbiamo iniziato a reclutare giocatrici. Dal 2020 il mio compito è stato proprio questo: incoraggiare le giocatrici a dare una possibilità a questa lega e a giocare a pallavolo negli Stati Uniti. Credo sia stato un passo importante e un momento chiave per permettere lo sviluppo di altre leghe qui. Allo stesso tempo, avevo anche un lavoro normale, perché la stagione di pallavolo durava solo sei settimane all’anno. Poi ho giocato nella prima stagione della PVF con Vegas Thrill, ma sono stata infortunata per gran parte del campionato. È stato davvero difficile: non avevo mai vissuto un infortunio così lungo prima. Mi sono chiesta se volessi far crescere ulteriormente la pallavolo femminile negli Stati Uniti, o se fosse solo il fatto di poter giocare di nuovo. La risposta è un po’ entrambe le cose. Da un lato, egoisticamente vorrei giocare il più a lungo possibile, dato che amo questo sport; dall’altro, andare avanti a giocare incoraggia anche altre persone a continuare a farlo, contribuendo alla crescita della pallavolo professionistica negli Stati Uniti”.
“Per quanto riguarda partite particolari, mi viene in mente il mio esordio con la maglia di LOVB Austin. Tornare a giocare nella mia città è stato qualcosa che nel 2019, quando mi sentivo persa e non sapevo cosa avrei fatto, non avrei mai immaginato. Pensavo di lavorare nell’industria del vino, tanto che avevo anche trovato un lavoro, ma poi l’ho rifiutato. Giocare a casa, nella mia città, con le persone a cui voglio bene, ad un livello così alto, è qualcosa di straordinario. Non si tratta di una G League dove ‘ci si diverte’: si gioca davvero ad alto livello, e io voglio imparare cose nuove ogni giorno. Quindi, direi che ci sono due momenti che davvero segnano questo percorso: il primo, essere invitata a contribuire alla nascita di nuove leghe professionistiche e vederle prendere forma grazie a grandi investitori come quelli di LOVB, Athletes Unlimited e PVF (ora si chiama MLV, ndr); il secondo, poter giocare in una squadra nella mia città. Il panorama della pallavolo femminile professionistica negli USA non è ancora perfetto, ma sono orgogliosa di quanto è stato fatto finora e felice di far parte di questi progetti”.
Guardando alla nuova stagione con LOVB Austin, quali sono gli obiettivi su cui vuoi concentrarti di più, sia a livello personale che con la squadra, e quale storia speri che quest’anno possa raccontare?
“Sono una grande perfezionista: è qualcosa su cui lavoro continuamente con la mia terapeuta. Uno dei miei obiettivi è riuscire a essere più indulgente con me stessa e a godermi di più i momenti. Ho ancora intenzione di giocare per anni. Non sono vicina al ritiro. Ma so che prima o poi arriverà. Quindi, è importante concedermi lo spazio per non essere perfetta e appoggiarmi alla squadra, sapendo che nemmeno le mie compagne si aspettano la perfezione da me. Vorrei anche essere una compagna di squadra migliore. Come posso farlo? Posso supportare di più le altre? Stamattina l’ho persino scritto sul mio diario: ‘È proprio nei momenti in cui stai facendo fatica che è più importante fare il tifo per le tue compagne’. È facile festeggiare quando tutto va bene, ma riconoscere di avere ancora molto su cui lavorare e, comunque, essere altruista e restare concentrata sulla vittoria della squadra… questo è un obiettivo molto importante per me. Poi mi piacerebbe essere la miglior muratrice della lega quest’anno. Dunque, cercherò di dare il massimo per me stessa e per la squadra”.
“Spero che questa stagione possa raccontare una bella storia. L’anno scorso abbiamo vinto il titolo, ma con onestà possiamo dirlo: è stato un po’ un colpo di fortuna. Quest’anno, invece, siamo tornate con l’intenzione di costruire una squadra coesa. Lo stiamo cercando di fare in modo molto consapevole, e l’atmosfera in palestra è straordinaria. Le sensazioni sono migliori rispetto all’anno scorso. Spero di riuscire a conservarle e di giocare, vincere o anche perdere, sempre con il massimo rispetto reciproco in campo. Voglio che si veda quanto lavoriamo duramente ogni giorno. Credo davvero che questa squadra sia in grado di vincere di nuovo. Ma sappiamo quanto sia difficile ripetersi, e se ci riusciremo, non sarà un colpo di fortuna: sarà perché ce lo saremo meritate”.
Intervista di Alessandro Garotta
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