“Vivere la perfezione è un’ossessione. Se sbaglio, mi giudico e a volte vado in crisi”. Chissà se Mattia Bottolo ha mai incrociato Federica Brignone in questi anni di crescente popolarità, perché è proprio lei che ci regala la frase più vicina al Bottolo-pensiero venuto fuori in questa intervista in cui parliamo di noi, di lui divenuto giustamente la stella, di quanto sia giusto nel ruolo, di momenti no. Ma soprattutto della parola ossessione.
Per lui è questa la voce che ne spiega il percorso, per me è la parola crisi che più lo affiancherebbe alla mia convinzione. Credo infatti, nel mio essere un giornalista qualunque, che questo Bottolo sia venuto fuori solo quando ha imparato realmente a cadere, a non riconoscere come suo un mondo in cui non si ritrovava, perché quando sei capace di affrontare la pallavolo come lui ha affrontato il quarto set di Italia-Bulgaria, è lì che cogli il senso del tuo viaggio agli inferi, della tua crisi, e a capire che semmai ritornerai nel punto più basso della Terra non potrai più farti male. Mattia non ha imparato a volare negli ultimi anni, ha legittimato altresì la distanza dal mondo come siderale, compiendo traiettorie per le quali a confronto il resto di noi ha solo preso un aquilone col filo e lo ha allungato di qualche metro. Parla spesso di alti e bassi, dove forse non si rende conto di quanti centinaia di km abbia alzato l’asticella verso la vetta. Diversamente dalle mie convinzioni, parla di ossessione, dicevo. Dell’andare contro tutto dai tempi di Padova, mai contro tutti. Del proteggere sé stesso perché vivere di pallavolo come vuole lui ha senso solo se sai a cosa vai incontro.
Qualche mese fa ha vinto un Mondiale, poi ha indossato il suo sorriso migliore, una pace dei sensi che conosco bene, non era questo fino a forse l’ultimo anno, e si è lasciato inondare dal mare di popolarità che è arrivato tutto d’un tratto. È lui, dice un bambino di nove anni, durante il riscaldamento di Civitanova-Perugia, è ancora lui, ci direbbe Quasimodo, quello della pietra e della fionda. È lui, quello che io e il tifoso della scuola primaria ricordiamo, che prende l’Italia negli ultimi sei minuti di partita e infila quattro siluri al servizio, ammutolendo la Bulgaria nella finale del Mondiale.
Lo indica, forse come ho fatto io guardando la partita con la mia famiglia e puntando il dito verso la televisione e verso Mattia. Lo conosco. Io ci ho creduto sin dal primo giorno in cui l’ho visto a Padova. Ci ho creduto persino quando, sono sicuro di averlo scritto, sembrava che tutti ci fossimo dimenticati di cosa è stato capace anni fa. Quando, come sempre succede nella pallavolo italiana di oggi, arriva una nube, e al posto di riparare Bottolo con l’ombrello quando cade la pioggia, lo lasciamo sotto un acquazzone, convinti che ce ne saranno altri, non che Mattia imparerà a farsi scivolare le gocce come l’acqua sugli specchi, e poi si asciugherà ciò che resta per ripartire alla grande.
Nella versione meno ossessionata e post-crisi, Bottolo sceglie infine di mostrarci l’altra guancia e si siede nei salotti a parlare della sua impresa. Sembra sia nato per questo, o forse ha semplicemente capito che il sole, dopo un temporale, ti riscalda, ed è luce del giorno, sanfrancescamente parlando.

“Non mi riguardo mai quando faccio delle apparizioni o delle interviste in televisione perché odio farlo. Mi accorgo del fatto che alcune cose non avrei dovuto dirle in un certo modo, o che determinati passaggi andavano elaborati meglio, quindi la lascio lì. Inizialmente questa popolarità inaspettata e moltiplicata varie volte, se pensiamo al seguito riscontrato anche ai Mondiali nelle Filippine mi ha molto stupito e l’ho vissuto come una novità. Premetto, la vivo e la vivrò con divertimento senza costruire castelli in aria o pensando a quanto durerà e a cosa porterà. È un aspetto davvero marginale del mio lavoro”.
Ha dichiarato che per arrivare dove è ora lei ha fatto moltissimi sacrifici. Pensando al più duro e al più impegnativo, quale le viene in mente?
“Io credo che per arrivare in ogni sport è banale dirlo, ma il sacrificio sia alla base. In percentuale a quanto uno sia disposto a sacrificare, si possono raggiungere determinati livelli. Per quanto mi riguarda, di ciò che lasciavo per strada non mi interessava mai molto, capivo che rispetto a qualunque ragazzo della mia età stavo mettendo qualcosa in più sul piatto. Io ero disposto a spingere molto, quasi a essere ossessionato dall’obiettivo che volevo raggiungere. Alla luce di ciò che sto vivendo, penso che il momento più bello e i frutti del lavoro siano veramente arrivati. Poi, non mi fraintenda, io e le persone che mi affiancano abbiamo già messo in conto che salterò battesimi, matrimoni, lauree, occasioni di convivialità e momenti famigliari perché impegnato in questo progetto, però ripeto quando vivi per arrivare e ne sei quasi ossessionato, non ci pensi troppo”.
“La mia carriera è composta da tanti momenti alti e tanti momenti bassi”. La cito testualmente e le chiedo con la sincerità che la contraddistingue, quale è stato il punto più basso che le è servito a diventare il Mattia che abbiamo visto qualche settimana fa.
“Penso il secondo anno qui alla Lube, perché ho incontrato più difficoltà del previsto, ed è stato un momento molto complicato della mia carriera perché lo dico in parole povere, non vedevo mai il campo. Per la prima volta ho pensato di non valere ciò che avevo realizzato fino a quel momento e ho dubitato delle mie scelte. Mesi difficili, forse ne parlo per la prima volta pubblicamente con lei. Facevo fatica a venire agli allenamenti, ho visto per settimane il buio nella mia carriera. Ne sono venuto fuori”.

Le chiedo come.
“Perché il non successo non era contemplabile per me. Non potevo fallire, o semplicemente potevo riprendermi da quel momento, così come è capitato talvolta anche nelle giovanili. Le carriere, lei lo vedrà non possono essere un eterno volo, succede di attraversare dei momenti più complicati. Ho realizzato che se questo possa essere avvenuto in passato, quando ero più piccolo, era normale metterlo in conto anche negli anni della maturità professionale. Mi sono allenato, ho aspettato, ho dimostrato e ne sono venuto fuori”.
Posso dirle che i suoi svariati aces in Italia-Bulgaria sono stati il momento più bello della finale?
“La ringrazio molto”.
Lei si è reso conto di aver compiuto un’impresa, avendo reso spettacolare il finale di partita?
“Tutti noi abbiamo contribuito a rendere spettacolare quella gara. Per tutto il quarto set non immaginavamo che potesse finire in quel modo. È stato un momento che definirei magico”.

Il Mondiale del 2022, ha dichiarato, fu per lei importante, ma non da protagonista. Cosa significa essere ora il centro di questo successo?
“Credo sia un discorso che non appartiene solo a me, ma a molti compagni che nel Mondiale precedente non capivano fino in fondo cosa significasse quella maglia, quel traguardo, e soprattutto il modo in cui ce la siamo giocata. Abbiamo fatto il Mondiale che volevamo davvero, questo è un passaggio da non sottovalutare”.
Da campione del mondo, torna a Civitanova. Dopo le prime giornate il bilancio è ottimo. Che stagione vuole per sé e questa squadra?
“Il bilancio è positivo. C’è la fiducia che se questa squadra crescerà ancora potrà puntare in alto. Certo, dovremo continuare con la stessa umiltà e con la consapevolezza che potremo cadere se non daremo il massimo in ogni singolo istante della settimana”.
Intervista di Roberto Zucca
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