“Faccio fatica a parlare, devo dire”. Sono passate da poco le 15 di domenica 28 settembre. È un dettaglio che uno come Simone Giannelli sia appena diventato campione del mondo. Simone lo è da sempre, è nato per vincere ed infatti ha vinto tutto in carriera e in una situazione così si era già trovato nel Mondiale precedente. Sul tetto, sopra il resto della pallavolo.
Oggi si trova però davanti a noi, al pubblico che lo venera, ma mai abbastanza. Ai tifosi che conoscono qualcosa di lui, ma ai quali Giannelli non è mai riuscito a donarsi completamente. È una macchina da guerra il più forte palleggiatore del mondo, è un cyborg, è uno che in una trasmissione come Verissimo, due anni fa mi pare, di fronte ad una conduttrice che lo incitava ad utilizzare i cleenex che tutti gli ospiti che passano di lì usano per frignare a favore di telecamera, non cede di una virgola.
Per la prima volta da quando lo conosco, Simone non è pronto. Senza corazza, senza regia, senza punti di riferimento, senza le solite parole perfette che ha elargito in ogni occasione ad appassionati e addetti ai lavori di cui forse ha sempre avuto le remore che io in primis avrei se sapessi che categoria di iene sappiamo essere talvolta.
La voce si spezza, prova a ricacciare le lacrime in gola, ma è il momento in cui il pubblico non esiste più e Daniele Lavia non dice nulla, perché sa che Giannelli è perfettamente in grado di gestire la situazione. È una pagina di Leopoldo Bloom, è un brano di Holden Caulfield, è forse il miglior Jay Gatsby che si possa vedere in televisione. Viviamo i due minuti più intensi dell’intimità di Simone Giannelli e la Rai ce li regala così come ci ha regalato il 3-1 contro la Bulgaria. Sono secondi che vanno spiegati, o se vogliamo essere onesti, vanno interpretati.
Nessuno, all’inizio di questo campionato Mondiale, pensava che l’Italia di De Giorgi potesse replicare quella di Velasco. Nessuno, a parte Simone Anzani, che me lo aveva detto tassativamente in una nostra conversazione privata. Lo aveva fatto intuire, dicendo che la palla è rotonda, e che insomma, le squadre imbattibili non esistono. Nessuno, all’inizio di questo campionato Mondiale, pensava che l’assenza di Daniele Lavia, dolorosissima, sfortunata, degna di un canovaccio da tragedia shakespeariana, avrebbe potuto essere soppesata con un Bottolo enorme, stupendo, uno che di faccende come una responsabilità del genere ne ha già vissute parecchie e da momenti davvero complicati alla sua età è uscito da solo, commuovendomi alquanto. Nessuno, secondo me, pensava che stavolta Giannelli avrebbe potuto affrontare senza Daniele un campionato in cui non era certo l’Italia la favorita. Un’Italia maschile che non faceva più notizia, senza casse di risonanza, senza meme e senza esibizioni plateali. Un’Italia maschile fatta di moltissimi contenuti e di poca forma, di imperfezioni non raccontate, di unità, di vera fratellanza (poco esibita). Di questa fratellanza Daniele e Simone sono forse il simbolo. Anni a Trento, in nazionale, sempre assieme, molto legati.
“Se ce la fai tu, ce la faccio anche io. E se cadi tu?“
Immagino quanto sia stato complicato per Lavia raccontare da uno studio tv una nazionale in cui fino a due settimane prima, era uno dei protagonisti assoluti. Immagino però quanto sia stato duro affrontare un pre-Polonia, un pre-Bulgaria per Simone Giannelli.
Chi si abitua allo sport raccontato con i balletti e le coreografie, con le frasi fatte, con i carri dei vincitori, con l’io davanti a ogni discorso, non conosce cosa significhi la cultura del noi. Se c’è una cosa che anni di Volleynews mi hanno insegnato sui ragazzi di De Giorgi è ciò che in un’intervista di Walter Siti di qualche anno fa ho imparato sulla vita: se usi l’io in un gruppo, non sei il gruppo.
Daniele oggi era sul podio, con la sua maglietta, come alle Olimpiadi del 2012, Cristian Savani vi portò Bovolenta. In barba ai regolamenti, alle richieste della FIVB o del CIO di turno. C’era Sanguinetti, ma c’era soprattutto il dolore di non avere Lavia per colpa del destino infame o della vita sceneggiatrice.
“Me lo sono portato nel cuore”
Simone va avanti, Daniele non regge l’urto, piange. È Alex Levy, il personaggio interpretato da Jennifer Aniston in The Morning Show, che alle pressioni invisibili, al dover essere “in scena” sempre (la quarta stagione è su Apple da pochi giorni, non ringraziatemi), sostituisce la sicurezza con la vulnerabilità che ritrova in Giannelli. È questo il segreto di questa Italia?
Sì. È Anzani che non smette di dire quanto siano stati complicati questi ultimi due anni (lo dice QUI). È Galassi che trova poco spazio, come dice oggi Colantoni, ma che antepone al dispiacere dell’io, la bellezza della vittoria e la gioia della vittoria del noi. È questo Giannelli, che aspettavamo da anni veder passare, che mostra per la prima volta le sue fragilità e ci regala forse il più bel momento dopo la vittoria del Mondiale, avvenuta solo mezz’ora prima.
“So che non siete abituati a vedermi così”.
No Simone, non lo siamo. Abituaci, abitua il pubblico che ti vuole bene e che in questi quindici giorni si è di nuovo innamorato follemente di voi.
È complicato essere Cyrano, o Adelchi. È complicato essere riferimento, ghiaccio, fuoco e anestetico. Ma mai come oggi l’umanizzazione tua e dei personaggi che hanno affrontato con te questo traguardo è stata di supporto ai milioni di ragazzi che sognano di essere te, Anzani, Lavia e magari non sanno cosa ha significato esserlo e quale sia stato il reale prezzo da pagare o che abbia significato portare dentro la rabbia e la solitudine.
Ci vuole una vita per conoscere sé stessi. Ma basta un attimo, Simone, per capire che vita puoi essere in occasioni come quella di oggi.
Congratulazioni.
Di Roberto Zucca
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