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La testimonianza di un allenatore: “Il nostro sport oggi non è sicuro”

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Di Redazione

In seguito alla lettera inviata da una pallavolista di Serie C al Giornale di Brescia, che abbiamo riportato ieri, abbiamo ricevuto la testimonianza di un allenatore di Serie B che chiede di rimanere anonimo e che esprime a sua volta la propria preoccupazione per la gestione dell’emergenza Covid-19 nell’ambito dei campionati “minori”.

Mi sono trovato a portare il Covid in casa dalla palestra, quasi sicuramente – scrive il tecnico – e a vedere morire una persona cara. Una perdita per la quale non ci sono colpevoli, dalla quale sono uscito con la rafforzata idea che solo con una campagna vaccinale estesa (che non dipende da noi) si possa tornare a una attività normale. Nell’attesa occorre sostenere le realtà medio-piccole che nel mentre soccombono al peso dei conti, e/o promuovere una complessa rete di tamponi come succede in serie maggiori.

Come per la storia della pallavolista da voi citata, in un momento storico così difficile e drammatico, anche la B continua quindi tranquillamente. Non vengono richiesti tamponi settimanali (insostenibili, come detto), con scelte assurde, sostenute in ottobre, che bastasse un sierologico pre-prima di campionato per essere a posto tutta la stagione.

La FIPAV anche qui decide che possiamo continuare, delineando delle linee guida che sembrano più norme comportamentali che veri tentativi di limitare la diffusione del virus. Dalla disinfezione dei palloni (a mano o con una macchina che lo fa, resta una cosa che si fa con poca continuità), all’aerazione delle aree, all’uso della mascherina (obbligatoria nell’atrio della palestra, ma poi tolta appena si varca lo spazio di gioco…), agli ingressi sfalsati tra gruppi che si allenano in orari contigui, alle trasferte in cui ci respiriamo addosso (ma attenzione, se il pulman è da 50 posti allora va bene). Senza controlli sull’efficacia delle norme, il virus ce lo troviamo in casa, e si unisce ad infortuni, malanni stagionali e problematiche generiche.

Nel caso poi in cui ci sia una giocatrice positiva, le regole della Federazione la tengono fuori per almeno 30 giorni (tra decorso della malattia e tempo di finestra per poter rientrare), rendendo di fatto inutile gli impegni economici presi dalla Società per poter affrontare i playoff e provare nella promozione, e, più in generale, la validità di un campionato corto e monco. Altro problema per il quale non ho soluzione.

Il nostro sport, che per gli ultimi 15 anni mi ha dato da ridere, da piangere e da gioire, non riesce in questo momento ad essere sicuro. Tralasciando per un momento il mondo professionistico, e la sua migliore gestione, le persone coinvolte in realtà semi-professionistiche e amatoriali sono a rischio. Non so quale sia la soluzione, ma mi unisco all’appello: evitiamo situazioni pericolose. Al di là dei soldi e dei campionati (in cui, in alcuni casi, nemmeno si retrocede), restano le persone. Nel caso della mia famiglia, una in meno“.

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