Questa non è un’intervista su Tommaso Rinaldi e la sua prima stagione in Giappone. O meglio, certo che lo è, ma se non conoscessi abbastanza bene la persona con cui da anni ho instaurato un rapporto più da paternage che da giornalista e pallavolista, farei come quello che parte da Mila e Shiro, dagli anime e dagli anni ’80 che hanno sdoganato la pallavolo per bambini alla televisione (non capendo mai che è Mimì e la nazionale della pallavolo ad aver alimentato il legame cartoni animati-volley) e facendoci capire quanto i giapponesi amassero il volley. Poi ti accorgi che è così per noi, che i giapponesi certi personaggi non li hanno nemmeno visti nascere e passare e che la pallavolo asiatica è fatta di tutt’altro. Quindi deludo grandi e piccini in una sola conversazione e passo a parlarvi di cose serie. È quasi mezzanotte a Osaka e nonostante i fusi orari abbiano otto ore di differenza, entrambi siamo pronti ad addormentarci, entrambi siamo Bill Murray e Scarlett Johansson in quel meraviglioso capolavoro che è Lost in Translation, interamente girato in Giappone, ed entrambi abbiamo forse voglia di parlare di noi.
“Più conosci te stesso, e sai quello che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi”.
È vero Tommaso? È vero, lo chiedo anche ai lettori Rinaldiani?
Già, direbbe una Scarlett qualunque, nella misura in cui conoscesse un minimo un giocatore che in questi anni è stato un camaleonte dell’animo, ma anche un combattente silenzioso, una persona capace di guardarsi dentro e fare una scelta che a tutti sembrava quella di uno che aveva solo tutto da guadagnarci. Per me, se non fosse stato Tommaso, avrebbe solo avuto da perderci.
Bisogna avere spina dorsale per lasciare tutte le certezze di una vita, la propria famiglia amatissima, la donna che ami anche se ancora non lo sai, la città con cui hai vissuto “una storia d’amore cominciata quando avevo sei anni, quando andavo al PalaPanini a vedere mio padre giocare, con quella che secondo me era la maglia più bella di tutte: quella di Spider-Man”.
Bisogna essere lucidi per scegliere di abbandonare un luogo, una squadra in cui sei un po’ il più piccolo, il più coccolabile e quello più coccolato, il simbolo di una nuova generazione, per accasarti a tremila chilometri in un campionato nel quale rischi sempre di essere “l’altro straniero” perché a farti ombra hai uno che di professione sulla carta di identità ha scritto “stella di firmamento” e si chiama Matt Anderson, cioè Dio.
Bisogna conoscere sé stessi per capire che quella opportunità vorrà dire crescere, vorrà dire far capire al mondo che tu sei più di quei 24 anni che dici di avere, ma per me ne hai sempre dimostrati di più, quella pace che mi comunichi ogni volta che alzo il telefono e non importa se il filo rosso percorre il tragitto tra Sardegna e Modena per anni e poi improvvisamente arriva ad Osaka, quella risoluzione che ti sei dato perché niente di ciò che ti sei conquistato è stato facile, e io quella sofferenza, quella fatica di essere come hai dovuto essere l’ho percepita la prima volta che ti ho guardato esibirti dentro l’Arena del PalaPanini. Non so quanto conti per te sentirti dire che sei stato bravo, che hai vinto e guadagnato a prescindere tutto tu, che siamo solo noi ad aver perso, ad averti perduto, e che la tua permanenza ci farà semplicemente vivere il Giappone con quell’aria che tu sai dare alle cose, un po’ leggera, un po’ sognante, un po’ alla Tommaso, ovvero un’aria che al solo respiro vuoi respirare e respirare ancora e ancora e ancora.
“Mi manca molto il PalaPanini. Non c’è giorno in cui non ci pensi, non pensi a casa, a ciò che ho lasciato. Ha ragione quando dice che lasciavo tanto e quando ho scritto quel messaggio per i saluti ai tifosi di Modena, non soffrivo, non piangevo, ma rivivevo tutto, tutti quegli anni che mi hanno fatto dire che quella è stata ed è la mia casa. Ho dichiarato proprio a Volleynews che avrei voluto essere come Totti alla Roma, ossia vestire per tutta la vita la maglia di Modena e così non è stato. Modena è per me l’anno dell’Under 15 in cui ho esordito ed è il percorso con la stessa maglia con cui ho poi esordito in prima squadra e in Superlega. Detto questo, ho fatto pace con questo aspetto, anche se qualche mese fa, quando è arrivata la proposta del Giappone non ho approcciato l’offerta con la curiosità di ciò che stavo andando a fare o ciò che mi offriva da ogni punto di vista. Poi oggi tutto è cambiato”.
Quando è cominciato il suo legame col Giappone?
“Dopo i primi giorni. Ho vissuto un’estate molto intensa con una persona, che si chiama Vittoria ed oggi è la prima volta che ne parlo in un’intervista, ed è stato tutto bellissimo, anche se da un certo punto in poi è stata una batosta”.
Perché?
“Perché Vittoria è una pallavolista, la sua famiglia è diventata sostenitrice della squadra di Modena femminile e lei ha scelto di trasferirsi in città ed è diventata il capitano del team che gioca in B2”.
Lei arriva nel posto che Rinaldi, dopo diciotto anni, Cisterna a parte, stava lasciando.
“È stata dura, perché sento che è la persona della mia vita e anche poco prima di sentire lei al telefono, contavamo i giorni che ci separano dal Natale che trascorreremo assieme qui in Giappone. Quindi parto un po’ con la tristezza nel cuore, ma consapevole di ciò che è il mio lavoro e il mio impegno. I primi giorni con Ginevra, mia sorella, le dicevo, sono stati un piccolo trauma. Tutto diverso, a cominciare dai ritmi, dagli spazi, dal tatami al posto del letto. Mi sono comportato come avrei fatto in una qualsiasi nuova avventura e la risposta è stata un enorme affetto e una grande gratitudine che ha cominciato a tornarmi indietro”
Mi ha molto colpito un’immagine dei suoi compagni dei Sakai Blazers scattata il giorno del suo compleanno. Sembra felice, per niente nostalgico. E sembrano felici loro.
“Qualcuno mi aveva detto che all’inizio sono molto restii sull’accettare l’altro, nonostante la loro proverbiale gentilezza. Invece non c’è sera che non mi veda a cena in un omakase con qualche compagno, non c’è uscita o attività nella quale non venga coinvolto. Ho cominciato a studiare giapponese e loro per questa cosa vanno matti. Una questione di rispetto, la voglia di sentirti parte di qualcosa e di venire a contatto con le tradizioni di un paese molto affascinante e questo mi ha fatto entrare in empatia con loro e soprattutto non mi sono sentito solo in un giorno che ho sempre trascorso a casa con le persone più care”.
Questo aspetto così empatico mi ha ricordato una conversazione su Modena avuta con una persona che lei conosce bene. Parlo di Bruno.
“È uno degli amici migliori che la pallavolo mi ha regalato e cerco sempre di prendere il meglio dalle persone come lui, quindi è un bel complimento quello che mi fa”.
Torniamo al Sakai. Mi racconti le diversità.
“Abbiamo un centro sportivo con l’hotel della squadra, ma anche la palestra, la sauna e altre strutture nelle quale ci sono quattro palazzetti ed in base alla quantità dei biglietti venduti ci spostiamo da uno all’altro per giocare le gare. Certamente il fatto di giocare due gare ogni weekend è uno dei cambiamenti più impattanti per me”.
Lei e Anderson, suo compagno di squadra, siete considerati invece un po’ le stelle della squadra.
“Abbiamo anche Ulrich come terzo straniero. In generale Matt è una specie di divinità pallavolistica, ma i compagni e i tifosi sono in generale gentilissimi con tutti. Io ho una persona che si dedica completamente a me per qualsiasi cosa e cercano di accontentarmi in tutto. Per loro il tuo benessere è la priorità. Poi mi riempiono di regali, attenzioni e una cosa a cui tengono molto nel dopopartita è venire a complimentarsi e a battere il cinque ad ognuno di noi. Lei si immagini farlo con 4000 persone al palazzetto, è un momento che dura una quarantina di minuti, ma da queste piccole cose capisci quanto tengano a venire a trascorrere parte del pomeriggio del sabato o della domenica per seguirti e venire a tifarti e a portarti un presente”.
Attualmente è uno dei tre migliori del campionato.
“La situazione in classifica può solo migliorare. Per quello che mi riguarda sono felice del rendimento delle prime partite, esattamente come mi fa piacere essere considerato uno che deve fare moltissimi punti a partita e un riferimento per tutta la squadra”.
Non è semplice essere questa persona a 24 anni.
“Forse no”.
Quando ha imparato ad essere questa persona così scafata?
“Quando i miei genitori si sono separati. Ho imparato a fare affidamento solo su me stesso e nei momenti di sconforto ho camminato da solo, spesso autoflagellandomi, ma vivendo la solitudine di certi attimi di vita e non parlando di certe cose con nessuno”.
È felice Rinaldi?
“In questo momento molto. Porterò avanti questa avventura con la serietà che mi contraddistingue e soprattutto fino alla fine. Io arrivo sempre all’ultimo gradino della scala e non arretro mai, sono fatto così”.
Intervista di Roberto Zucca
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