La storia dell’Imoco e di Daniele Santarelli. La vittoria di un allenatore… "normale"!

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Di Stefano Benzi

Qualche giorno fa ho voluto dedicare un post a una squadra che ha perso e lo ha fatto in modo estremamente dignitoso e dimostrando una grande coesione, Trento (clicca qui). Vincere è difficile, in Italia poi è difficilissimo e l’Imoco Conegliano ha dimostrato di sapere come si fa a vincere ribaltando il piano inclinato dei pronostici e sovvertendo tutte le aspettative.

Novara era strafavorita, e non solo per una questione di opportunità sulla base del maggior numero di incontri casalinghi a disposizione: la Igor sembrava stare meglio prima di questa finale. Poi qualcosa è cambiato: sicuramente la squadra campione si è inceppata in modo evidente in alcuni meccanismi che sembravano oliati. Ma non penso che sia stata Novara ad aver perso il titolo. Sono invece convinto che sia stata Conegliano a vincerlo con pieno merito.

Per le pantere è stata una stagione complessa e piena di problemi e infortuni, con tanti alti e bassi: c’è voluto molto tempo per vedere la squadra esprimersi sulla base delle sue qualità ma la squadra è esplosa nel momento in cui era necessario, superando anche un infortunio gravissimo come quello di Raphaela Folie nelle partite decisive.

Se Angelo Lorenzetti è il tecnico del buon senso e della comunicazione a tutto tondo, Daniele Santarelli è il tecnico dell’umiltà: in un ambiente tecnico a volte un po’ troppo maschile che spesso porta avanti le proprie convinzioni con modi quasi militareschi, mi ha sempre fatto tenerezza ascoltare i time out di Santarelli in cui il tecnico di Conegliano chiede le cose con voce tesa e nervosa. Quest’anno penso sia cresciuto tantissimo anche lui: ha dovuto affrontare situazioni difficili, un lutto… lo ha fatto con grande consapevolezza.

Non è un mistero che Daniele Santarelli sia sposato con Moky De Gennaro, il libero dell’Imoco e della Nazionale: a volte, in modo un po’ invasivo, lo ammetto, ho guardato con curiosità il loro rapporto in campo. Se uno non sapesse le cose la relazione tra i due sembra quello tra un tecnico e la sua giocatrice che non fanno nulla, ma proprio nulla, per lasciar trapelare il rapporto speciale che li lega. Ma domenica, durante la partita, quando Novara si era rifatta sotto, Santarelli era parecchio in ansia: ha chiamato due time out difficili, sofferti. Al momento di rientrare in campo ho trovato dolcissimo un buffetto che Monica ha dato al marito, o allenatore. Un gesto appena percettibile. Ero lontano, magari è stata una mia impressione ma ho visto Santarelli sorridere cosa che in panchina fa poco.

L’abbraccio tra i due alla fine della partita è stato splendido, dolcissimo: in un mondo di false coppie nate da presunti reality Daniele e Monica rappresentano una splendida immagine. Due ragazzi normali che fanno un lavoro che li rende speciali. Normali: Daniele non ha nemmeno una pagina su Wikipedia…

Due persone normali che amano la pallavolo e l’hanno scelta come professione: che senza ostentazioni si offrono al movimento con semplicità, come quando qualche settimana fa, così, senza avvertire, sono andati a vedere gli allenamenti del Giorgione, squadra che Santarelli allenava nel 2013.

Il bello della normalità… perché si può essere vincenti e assolutamente normali. Per battere una supersquadra come Novara occorreva una squadra normale, conscia della sua assoluta normalità ma straordinariamente coesa e consapevole di poter fare grandi cose grazie alla propria unità. E questo, forse, deve fare riflettere…

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Le storie di Stefano Benzi

Di Stefano Benzi

Diciamo la verità… quando quella lontana estate del 1984 si diceva “c’è la pallavolo, dove la andiamo a vedere”? Non eravamo molto consapevoli: un po’ perché quella non era ancora la generazione dei fenomeni che sarebbe arrivata di lì a qualche anno e un po’ perché eravamo ancora ubriachi del Mondiale di calcio vinto nel 1982. La pallavolo fino a quel momento era un parente povero e poco considerato: i canali televisivi che potevano trasmettere sport erano esclusivamente quelli della Rai. E dunque due… e mezzo: Il resto lo scoprivi alla spicciolata un po’ come il tennis o il nuoto. Eravamo impazziti per Novella Calligaris o per Adriano Panatta quando arrivò alla finale del Roland Garros. Ma il concetto di virata, di rovescio e di slide non erano per tutti. Per non parlare della vela: una volta ogni tot di anni ci ricordavamo di essere un popolo di navigatori per via di Azzurra, Luna Rossa o del Moro e si faceva la notte in bianco. Ma il senso di “cazza la randa” o di “bolina” non ci è ancora del tutto chiaro.

Per la squadra di pallavolo del 1984 non eravamo preparati: chi se l’aspettava una prodezza del genere. All’epoca lavoravo già e ricordo perfettamente uno dei miei capi – disperato – alle prese con un pezzo e un titolo sbraitava da infarto: “Come diavolo si dice – urlava in redazione – schiacciata o smash?”

A Los Angeles uno dei supertestimonial era Roberto Duran, straordinario pugile panamense che viveva in California e che era cresciuto al Chorillo, nella favela della Casa de Pedra. Da qui il suo nome: “Mano de Pedra”. Nel 1984 era all’apice: si era frantumato una mano combattendo contro Marvin Hagler (un vero animale da ring) dunque alle Olimpiadi faceva il personaggio e presenziava a tutte le gare più interessanti. Vedendo la squadra azzurra contro il Canada Duran disse… “Esta sì es una mano de pedra….”

La mano di pietra era quello di Franco Bertoli: i giocatori del Canada confessarono che quando Dall’Olio apriva lo schema su di lui la gara era a chi si spostava prima da una parte per evitare la botta. Era la generazione dei geometri: mi piace chiamarla così perché erano giocatori straordinari, certamente non ricchi, ma di feroce determinazione e di grande coraggio. Furono loro a porre basi di quanto sarebbe arrivato dopo.

Ottennero uno storico terzo posto, la prima medaglia olimpica della pallavolo italiana dopo una semifinale persa e giocata a testa alta contro il Brasile. Bertoli ha usato il granito per vincere – vado a memoria – anche sette titoli italiani, due coppe campioni e mi pare cinque Coppa Italia. Poi ha fatto l’allenatore, ricordo delle belle interviste con lui a Roma nel 2000, il dirigente e l’amministratore pubblico. Appassionato di statistica, è un grande studioso di numerologia. Un uomo simbolo cui hanno fatto una cattiveria: qualcuno si è introdotto in casa sua e gli ha svaligiato l’appartamento portandosi via anche la medaglia di bronzo di Los Angeles 1984. Anche se fosse d’oro il suo valore sarebbe davvero minimo: le medaglie sono placcate e simboliche, hanno un peso solo per chi le ha vinte e per chi eventualmente le colleziona.

Cari signori ladri, a Natale, siamo tutti più buoni… cogliete una buona occasione per fare una bella figura. Fate un pacchettino, mi raccomando con tanta bella carta per evitare gli urti, e spedite il tutto a Franco Bertoli, presso C.O.N.I. Largo Giulio Onesti 1 Roma. Là sapranno come recapitarla a una mano di pietra che per vostra fortuna non avete trovato in casa mentre stavate facendo pulizia. Perché Bertoli ha sessant’anni ma se li porta alla grande; è di Udine – gran testone – è 1.92 per novanta chili di muscoli e le mani di granito le ha ancora. Io uno così lo vorrei avere tutta la vita dalla mia parte.

E poi, che ve ne fate di una medaglia che non meritate?