Filippo Rubin, la pallavolo e le sue emozioni raccontate con le immagini

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Di Redazione

Filippo Rubin, fotografo ufficiale della Lega Pallavolo Femminile, dopo l’esperienza ai Mondiali in Giappone, si racconta a Volley NEWS alla vigilia del nuovo campionato di A1.

Ci racconti il primo approccio a quest’arte. Quando ha iniziato a fotografare e quando ha capito che sarebbe diventato un lavoro?
Ho cominciato per caso: ero appassionato di elettronica, avevo iniziato l’università che poi non ho terminato perché ho scoperto che non faceva per me. Giocavo a pallavolo, e una sera, mentre facevamo stretching, ho condiviso uno scambio di idee con un mio compagno. La fotografia, le sue sfumature e molto altro. Da lì ho iniziato il mio percorso”.

Amore a prima vista?
Dopo aver comprato la mia prima reflex con un paio di obiettivi decenti, avevo la necessità di provarla. Fatto vuole che vicino a dove abito io c’è una pista per le moto, ad un km da dove abitano i miei genitori, e così ho deciso di andare là a provare il mio nuovo obiettivo. Sono andato a scattare foto e c’erano dei piloti che correvano in moto. Alla fine di questo turno di prove, si avvicinò un pilota, chiedendomi di vendergli le foto. Sono andato a casa gli ho masterizzato il cd con le foto, gliele ho consegnate, lui mi ha pagato e da li ha avuto inizio tutto. È stata una cavalcata da lì in avanti, ogni weekend andavo in questa pista e vendevo le mie foto ai piloti. Avevo creato anche un sito dove le caricavo e le vendevo, e pian piano con il tempo ha preso piede. Li poi, ho conosciuto un ragazzo di Treviso che faceva il grafico, appassionato di moto. La sua famiglia aveva un’agenzia di grafica e di editoria. Così abbiamo iniziato a collaborare. Contemporaneamente è iniziata anche l’avventura nella pallavolo”.

Un mondo particolare…
Essendo appassionato di pallavolo, vedevo sempre sui giornali la firma sulle foto “Galbiati”. Ho fatto una ricerca su internet e mi è saltato fuori il nome di Fiorenzo Galbiati, professionista da moltissimi anni nel campo della fotografia. Nel 2005 sono dunque riuscito a strappare una collaborazione prestigiosa, ma la svolta fu nel 2007, quando mi chiamò e mi chiese di andare a Mosca per gli Europei Maschili al suo posto. Questo è stato il primo evento “enorme” contraddistinto da numerose responsabilità, nonostante in Italia avessi già seguito una finale Scudetto. Da li mi sono convinto definitivamente nel farlo diventare il  mio lavoro. Se riguardo adesso le foto di allora c’è da mettersi le mani nei capelli (ride), però da qualche parte bisognava pur iniziare, c’è sempre da migliorare”.

 Come è iniziata la sua collaborazione con la Lega Pallavolo Femminile?
“In poche parole, ho continuato a collaborare con Galbiati, ma più che altro seguivo il maschile perché andava per la maggiore. Nel 2008 sono andato per la prima volta in Giappone a seguire il torneo di qualificazione olimpica (Olimpiadi di Pechino, ndr), e li tra gli inviati della Rai c’era anche Consuelo Mangifesta che ho conosciuto proprio in quell’occasione. Nell’estate successiva il fotografo ufficiale della Lega non riusciva a seguire una tappa di beach volley, così lei mi chiamò chiedendomi se potessi sostituirlo, e io ci andai. Fu l’inizio. Dalla stagione 2009 chiesero definitivamente a me. Praticamente questa sarà la mia decima stagione come fotografo della Lega Femminile”.  

 La professione di fotografo nel volley non è semplice, vista anche la forte concorrenza.
“Il problema, chiamiamolo cosi, sono gli amatori, cioè tutti quelli che non lo fanno per mestiere ma lo fanno per hobby. Ci sono molti che lo fanno anche bene, alcuni sono veramente bravi, ma il problema è che lo fanno un po’ come gioco e sono tanti, quindi saturano il mercato di foto che alla fine sono gratis. Quindi uno che vuole seguire la pallavolo come fotografo per mestiere cercando di trarne un guadagno, un beneficio economico, fa fatica. Ci sono sempre più scatti gratis. Il problema poi è quello degli accrediti durante le partite: bisognerebbe fare più attenzione a chi darli. Per noi che lo facciamo come professione non va bene”.

I Mondiali in Giappone. Che esperienza è stata?
“Per me si è trattata della quinta volta in Giappone, bene o male lo conoscevo ma ogni volta è un esperienza unica perché è un paese fantastico. Questa volta però è avvenuto tutto all’improvviso. Mi hanno detto che dovevo partire solo tre giorni prima e quindi ho dovuto organizzare tutto in fretta e furia. Si sapeva che la squadra poi era molto forte quindi le speranze di arrivare fino in fondo c’erano tutte e infatti poi si sono concretizzate. Alla fine abbiamo perso per un punto purtroppo. A livello personale comunque seguire un Mondiale o un evento internazionale è sempre bello. Poi è sicuramente diverso da quando seguo il campionato in Italia, nel senso che io non ho nessuna squadra per cui tifo e quindi un conto è fotografare un club, un conto invece è l’Italia. È emotivamente più coinvolgente, un po’ come quando vado per il calcio e fotografo la Spal (ride)”.

 

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Falaschi Week, Capitolo 2: Giovani, chiavi di comunicazione, supporti psicologici e ruolo del capitano

Interviste

Nel primo capitolo della nostra Falaschi Week si è parlato molto di tecnica ed è emerso quanto sia necessario anche avere una predisposizione al sacrificio per lavorare su se stessi facendo anche esercizi che, inizialmente, potrebbero risultare noiosi e ripetitivi. Ripartendo da qui, chiediamo a Marco se i giocatori di oggi, quelli più giovani, siano predisposti a questo tipo di lavoro oppure no. Andando a fondo della questione, poi, sono emerse anche altre differenze rispetto ai giocatori, per così dire, più maturi, o comunque rispetto alla pallavolo di qualche anno fa. Oggi è necessario avere un approccio differente sia dal punto di vista relazionale che del coaching e un altro tema che sta emergendo di recente è la necessità, sempre più diffusa, di un supporto psicologico. Come si inserisce la figura del capitano in tutto questo? Andiamo con ordine.

Fala i giocatori più giovani ce l’hanno oggi questa pazienza di cui parlavi, questa attitudine al sacrificio?

“La propensione al sacrificio è sicuramente diversa, ma questo è un cambiamento figlio di questi tempi. Questo è palese. Prima uno in palestra ci stava anche quattro, cinque ore, era anche una valvola di sfogo. Se tornavi a casa c’erano solo i libri di scuola ad aspettarti. Oggi invece i ragazzi hanno tante distrazioni e tante situazioni extra pallavolistiche. Ciò detto, però, non mi sento di dire che siano totalmente scapestrati, totalmente svogliati. Come in tutte le cose, bisogna trovare la comunicazione giusta, questo sì, perché se prima quello che ti diceva di fare l’allenatore tu lo facevi, adesso con loro serve fornire una spiegazione, anche tecnica. Ci vuole una maggiore attenzione in quello che si dice”.

Perché oggi funziona così?

“Perché all’inizio c’è sempre in loro un minimo di dubbio. Prima si rispettava forse di più la figura, il ruolo dell’allenatore. Accettavi il fatto che ne sapesse più di te, che avesse più esperienza di te, e ti affidavi senza farti troppe domande, facevi quello che ti veniva chiesto di fare. Oggi non funziona così, ma va detto comunque che quel dubbio iniziale che hanno i più giovani viene subito messo da parte una volta visti i risultati, una volta capito che quello che ti viene chiesto di fare porta effettivamente a dei miglioramenti. I giovani oggi hanno bisogno di avere degli obiettivi, degli stimoli differenti. In questo, ad esempio, essere un bravo allenatore gestore aiuta molto. Quelli bravi a gestire un gruppo, come abbiamo detto nella prima puntata, sono più bravi a toccare i tasti giusti di ogni singolo giocatore”.

Ci confermi, dunque, che oggi la comunicazione è una componente importante anche del coaching?

“Purtroppo sì. Dico purtroppo perché prima era tutto molto più semplice, mentre oggi bisogna davvero stare attenti a tutto. Bisogna pesare ogni parola ed essere in grado di toccare le corde giuste per ogni giocatore, perché, ripeto, non tutti sono uguali”.

Leggiamo sempre più spesso di giocatori e giocatrici giovani, anche giovanissimi, che necessitano di un supporto psicologico per performare al meglio, per gestire la pressione e le aspettative. È una cosa che c’è sempre stata e oggi se ne parla solo di più, oppure anche questo è figlio dei tempi?

“Prima era sicuramente più un tabù e anche per questo se ne parlava forse di meno. Onestamente, però, faccio fatica a ricordare persone che in passato abbiano raccontato di aver sofferto ad esempio di depressione, o di ansia, o di stress. Il primo se non ricordo male fu Marco Meoni, che smise di giocare dopo che iniziò ad avere attacchi di panico. A Verona nell’ultimo anno fece un lavoro psicologico, ma ricordo che iniziò a palleggiare di lato e quella era una forma di adattamento del corpo e della mente alla situazione che si era venuta a creare. Oggi c’è sicuramente più fragilità e questo credo che sia una conseguenza del cambiamento dei tempi. Se ne sente parlare sempre di più e si sente di più il bisogno di essere affiancati da professionisti”.

Che idea ti sei fatto su questi supporti psicologici ai giocatori?

“Io non sono per un no a priori. Ho avuto compagni di squadra che ne hanno avuto bisogno, ma quello che gli ho detto sempre, anche da capitano, è che se ne trovano giovamento va bene, però poi non deve succedere che se non c’è lo psicologo non riesci a giocare”.

Tu hai mai sentito il bisogno di avere questo tipo di supporto?

“No, devo dire di no, ma forse perché sono stato anche abituato in un certo modo. Davanti ai problemi ho sempre lavorato da solo per cercare la soluzione”.

E i ragazzi di oggi non sono in grado di farlo?

“Forse meno perché hanno meno strumenti per risolverli e per cavarsela da soli. Ripeto, nulla in contrario se decidono di farsi aiutare da un professionista, ma non deve essere una cosa totalizzante”.

Comunicazione e psicologia: un buon capitano immagino debba saperle padroneggiare entrambe. Ma cosa è chiamato a fare veramente un capitano all’interno di uno spogliatoio?

“Ultimamente io ho giocato in squadre che lottavano per salvarsi, diciamo che sono stati più frequenti i momenti in cui c’è stato bisogno di un confronto, di guardarsi negli occhi e dirsi, senza troppi giri di parole, che si era nella m…a. Questa, ad esempio, è una responsabilità che spetta più al capitano che all’allenatore. L’ho fatto a Taranto, l’ho fatto anche quest’anno dopo la partita persa a Monza. Lì sono andato a prendermeli uno per uno, ci siamo chiusi nello spogliatoio e abbiamo parlato tra di noi. Stessa cosa l’anno prima dopo la partita con Cisterna perché le cose si stavano complicando”.

Quali sono i segnali di un pericolo imminente?

“In un gruppo squadra ti rendi conto quando le cose non girano più come dovrebbero. I segnali li cogli anche in allenamento e lì il capitano deve essere bravo a spegnere subito l’incendio dicendo ‘ragazzi, adesso ci dobbiamo parlare due minuti’. Prima magari ne parli solo con qualcuno, un’altra volta magari lo lasci andare, il giorno dopo glielo fai capire in altre situazioni, certe volte anche con una semplice battuta, poi però quando le cose si complicano allora è necessario affrontare il problema tutti insieme”.

Perché questo spetterebbe al capitano e non all’allenatore?

“Lo fanno anche gli allenatori, sia chiaro, ma il capitano è una figura importante perché è quella che fa da raccordo tra la squadra e l’allenatore o tra la squadra e la società, ed è soprattutto quello che deve dare l’esempio. E lo fa certe volte anche sbagliando lui di proposito perché anche quello è un segnale forte. Faccio un esempio, ogni squadra si da sempre delle regole e delle multe. Una di queste erano 10 euro se si calcia il pallone. A me è capitato spesso: quando non ero contento di come stava girando l’allenamento, o dell’atteggiamento dei miei compagni, ho preso un pallone e l’ho calciato in tribuna. Il tutto senza proferire parola. Quando succede, tutti capiscano che quello è il segnale che sta a indicare che si è superato un certo limite e bisogna rientrare nei ranghi. Io ho pagato le mie multe, ma l’atteggiamento poi è sempre cambiato. Una provocazione che doveva servire a generare una reazione”.

Ho l’impressione che lei come capitano sia proprio un bel martello.

“Che fai, mi dai del lei adesso?”

Era in segno di rispetto.

“A chi?” 

Al capitano. Mica mi darai una multa per questo…

“Ci devo pensare. Intanto fammi 100 bagher al muro bello teso senza far cadere la palla”.

Vabbè, ma così mi hai spoilerato la puntata di domani.

“OOOOPS!”

Intervista di Giuliano Bindoni
(©Riproduzione riservata)

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