Falaschi Week, Capitolo 3: Quando il Mago mi disse “Dimentica tutto quello che sai”

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Dopo aver parlato di allenatori e allenamenti, i giovani di oggi, il modo di comunicare con loro (e non solo quello), in questo terzo capitolo della nostra Falaschi Week, Marco ci racconterà la storia di un Mago e delle sue magie, una delle quali proprio a lui ha cambiato carriera e prospettive.

“Vincenzo Di Pinto è stato senza ombra di dubbio l’allenatore che mi ha dato di più sotto l’aspetto tecnico, tattico, ma anche umano – ci racconta Falaschi con la voce che quasi si rompe per l’emozione –. Non dimenticherò mai il primo approccio che ebbe con me. Era l’anno dell’A2 a Castellana Grotte (2011-2012, ndr). Noi dichiaratamente puntavamo a salire quell’anno, ma dopo tre giornate e tre tiebreak era stato esonerato Luca Monti. Arrivò così Vincenzo e le sue prime parole sono state queste: ‘Fala, tutto quello che ti hanno insegnato fino ad oggi, scordatelo. Da domani si fa un lavoro diverso’. Cominciamo bene, ho pensato io – ride di gusto -”.

foto Legavolley

“Da lì iniziammo un percorso tecnico, prima di tutto, perché mi impostò nuovamente. In quel tempo lì c’era la moda del palleggiatore che doveva essere alto e che doveva palleggiare con le braccia stese facendo andare solo i polsi. C’era Grbic che lo faceva benissimo, così come Coscione. Chiaramente non tutti erano in grado, e sono tutt’oggi in grado di farlo. Di Pinto mi disse che ‘questo va bene per alcuni, ma non va bene per tutti. Dobbiamo capire il tuo modo di palleggiare. Io ho visto un po’ di video tuoi e credo che per te il modo giusto sia un altro. Secondo me possiamo fare un bel lavoro’”.

“Iniziammo così a lavorare tanto con le palle mediche, a lavorare tanto su tutta la ‘neutralità’ del palleggiatore, questa famosa parola, ovvero l’attimo prima di palleggiare dove non si dovrebbe capire dove va il pallone. Quell’anno lì fu così un primo approccio, ma fu anche un gran bel approccio perché io mi affidai anima e corpo a lui. Ma sono stato ripagato, perché poi quegli insegnamenti me li sono portati dietro e ancora lo faccio. Un bravo allenatore deve capire chi ha di fronte e Di Pinto in questo è uno dei migliori in assoluto”.

Come andò a finire la stagione?

“Vincemmo la Coppa Italia di A2 e centrammo la promozione in Superlega tramite i Play-Off. La squadra a passare da prima era stata Perugia”.

foto Legavolley

Quello fu solo l’inizio della vostra storia insieme.

“Ci ritrovammo poi a Taranto, e il come ci ritrovammo lì fu abbastanza curioso, diciamo così. Nella stagione 2019/2020 io ero a Civitanova, facevo il secondo a Luciano De Cecco. A fine stagione arriva l’offerta di Perugia per fare il secondo a Dragan Travica e io firmo. Successivamente però chiusero anche con Simone Giannelli a fine mercato, con Sirci che aiutò Trento in quel momento difficile anche con un bel conguaglio economico, e di fatto si ritrovarono con tre palleggiatori in rosa. Contemporaneamente Taranto salì dalla Serie A2 e appena cadde l’ultimo pallone Di Pinto mi chiamò e mi disse ‘Dai Fala, ti liberi da Perugia e vieni qua’. ‘ Va bene, arrivo’ gli risposi io, e così riprendemmo da dove ci eravamo lasciati. Dovevano essere tre anni, poi invece purtroppo furono due, ma questa è un’altra storia…”.

“Erano passati alcuni anni da Castellana Grotte, ma la sua energia era sempre quella e io non ci pensai neanche un secondo di più a ricostruire quel binomio. Quando parlo di lui faccio fatica – prosegue Falaschi, ancora emozionato, ma anche divertito – perché ogni giorno che andavi in palestra ce ne aveva una da dirti, da raccontarti. E poi ti fermava dopo l’allenamento: ‘ dai parliamo due minuti di questa cosa’, poi quei due minuti erano sempre mezz’ora se non di più. Poi facevi il video e lui ancora ‘ho visto questa cosa qua’”. 

foto Legavolley

“Vincenzo vive per la pallavolo e vive per i dettagli, e da una parte te la fa amare ma anche odiare perché – sorride ancora – lui ci spende ore e ore a studiare e migliorare qualunque dettaglio. Quindi è chiaro che ha influito molto su di me, e ripeto, soprattutto a livello tecnico perché il lavoro che riesce a fare, non solo con i palleggiatori ma anche con i ricettori, con gli attaccanti, è straordinario, forse unico”.

Nelle puntate precedenti abbiamo sottolineato come la battuta stia diventando il fondamentale più importante di questa pallavolo moderna. Di Pinto è stato un innovatore anche in questo già in tempi non sospetti.

“Verissimo. Lui ne ha sempre studiato l’evoluzione negli anni e quando te lo raccontava, scherzi a parte, era davvero un piacere ascoltarlo. Tanto per dirne una, quando a fine anni ’90 ancora quasi nessuno batteva in salto, lui a Macerata in quel fondamentale ottenne ottimi risultati di squadra, anche grazie ad Andrea Zorzi, che volle fortemente quell’anno come capitano. Questo per dire che Di Pinto ha cercato e continua a cercare sempre di adattarsi a una pallavolo che cambia nonostante oggi lui abbia comunque 67 anni. Di questa cosa gli si deve dare atto”.

Dicono sia molto ‘geloso’ dei suoi metodi di allenamento. Non vuole che se ne parli troppo perché sono i suoi segreti. Ce ne potresti raccontare almeno uno?

“Non so, ad esempio la ricezione in palleggio. Cosa fa la stragrande maggioranza degli allenatori? Mettono il ricettore sui tre metri, gli fanno battere contro un po’ più alto e gli dicono di ricevere in palleggio qualunque palla gli arrivi. Vincenzo invece sale sul tavolo e ti tira addosso le palle mediche”. 

Sei serio? In che senso? 

“Nel senso che secondo lui, dopo esserti allenato così con le palle mediche, quando poi ti arrivano quelle normali tu sei apposto… ‘Se non la prendi e ti va in faccia, ti rompi il naso’ ti dice Di Pinto, e tu non hai alternative, quella cosa lì la devi fare, ma poi stai certo che la ricezione in palleggio per te non sarà mai più un problema”.

foto Legavolley

Lo chiamano Mago perché di magie nella sua lunga carriera ne ha fatte davvero tante. Ma non solo a livello di risultati di squadra, quanto soprattutto per il modo in cui ha plasmato tanti giocatori cambiandone di fatto la carriera. 

“Eh, qui facciamo notte, di storie ne potrei raccontare un’infinità, alcuni di questi switch sono stati davvero clamorosi. Te ne racconto uno. Quando arrivò a Taranto Eric Loeppky, la parole di Vincenzo furono queste: ‘Questo c’ha dei buoni piedi, ha un buon piano di rimbalzo, ma non capisco perché non riceve’. Così, in uno dei primi allenamenti al PalaMazzola, prende Eric e gli fa: ‘Tu vatti a mettere al muro e fai bagher al muro. Quando ne hai fatti un centinaio, ma bello teso eh, senza far cadere il pallone, poi ne riparliamo’. Questo nessuno lo fa, te lo posso garantire. Sono tutte cose, tutti esercizi volti a migliorare la tecnica individuale di un giocatore, che nessuno fa più. Per qualcuno possono sembrare forse cose vecchie, ma posso garantirti che ti servono. Oggi come riceve Loeppky?”. 

A chi altri sono serviti per esempio?

“Chiedilo a Gigi Randazzo. La ricezione, oggettivamente, non era mai stata il suo fondamentale. Nell’anno sotto Di Pinto fece un campionato clamoroso e a distanza di anni, ti posso assicurare, che lui si metteva ancora a fare bagher al muro da solo, perché Vincenzo gli aveva detto di fare così e lui aveva trovato delle sicurezze e in quel modo aveva affinato la sua tecnica”.

foto Legavolley

Nelle squadre allenate da Di Pinto la crescita individuale andava di pari passo con quella di squadra?

“Ti rispondo portandoti una statistica, anche questa clamorosa. Chi ne sa davvero di pallavolo capirà il perché. Noi in quei due anni a Taranto siamo stati la terza miglior squadra di tutta la Superlega per break-point fatti pur non avendo praticamente la battuta, perché poi questa era la verità. Cosa significa? Che c’era uno studio dietro, un’organizzazione. Vuol dire che quella era una squadra che sapeva cosa faceva. Facile fare la fase break quando sei forte con la battuta, prova invece a farla quando non hai battitori forti”.

Prima hai raccontato quanto Di Pinto viva per i dettagli. Puoi raccontarci qualcosa di più su come studia gli avversari? 

“Lui, ad esempio, è maniacale nello studio del palleggiatore avversario. A me diceva cose del tipo ‘quando fa il passo in avanti col sinistro alza in quattro, quando fa il passo in avanti col destro invece…’ cose così. Io gli dicevo che era impossibile in partita stare a guardare sempre i piedi dell’avversario, lui invece studiava tutto, ti mostrava tutto e si aspettava che tu poi facessi tue quelle indicazioni. Però anche in questo c’è una differenza abissale tra lui e tanti altri allenatori che allenano tutt’oggi in Superlega”.

In che senso nello specifico?

“Nel senso che, in fatto di indicazioni, tanti allenatori sono portati a dare ai giocatori lo stretto indispensabile: poche cose perché altrimenti poi si fa confusione. Vincenzo invece è l’opposto. Tanto per dire, sullo studio dei centrali, quando poi parlavamo io e lui in separata sede, mi diceva sempre che dovevamo dare ai centrali anche otto o nove indicazioni perché ‘così poi almeno tre o quattro se le ricordano’”.

foto Legavolley

Troppo esigente o esigente il giusto?

“No no, lui proprio ti rompeva i co….ni. Lui ti rompeva i co…..ni per tutte le due ore e mezza di allenamento. Ma è così che si deve fare. Se un giorno l’allenamento non va, o se un singolo giocatore non si impegna, è giusto dare in testa perché in quelle due ore e mezza tu devi dare il massimo e l’allenatore è quello che ti deve portare al limite. Sempre. Vincenzo questo lo faceva, e i risultati poi si vedevano e nessuno può affermare il contrario”.

Dicono che Daniele Santarelli sia così. Gli allenamenti di Conegliano sono ormai famosi per questo.

“Vincenzo ce lo spiegava così: ‘voi in partita sarete sotto pressione, ma io come faccio ad allenarvela la pressione? L’unico modo è rompervi i co..…ni in allenamento’. Ed è la verità. Detto questo, non è che dal martedì al sabato bisogna allenarsi sempre così, però magari dal martedì al giovedì sì, mentre invece vedo e sento di tante squadre che forse sono, diciamo così, fin troppo rilassate durante la settimana, anche prima di partite importanti, decisive. Gli eccessi in un senso e nell’altro non vanno bene, ma Vincenzo non sbagliava, la pressione è un’altra di quelle cose su cui si può e si deve lavorare in allenamento”.

Credi che sarà contento di leggere che lo consideri il tuo maestro?

“Immagino di sì, ma lui lo sa questo. Conoscendolo temo che mi chiamerà per dirmi che mi sono dimenticato di raccontare anche quando facevamo questo piuttosto che quello – ride -. Nel suo caso non basterebbe un libro”.

Viene da chiedersi come sia possibile che non stia allenando in Superlega. Mi verrebbero in mente diverse squadre, anche blasonate, a cui servirebbe uno come Vincenzo Di Pinto.

“Io non parlo altrimenti tu poi lo scrivi e metti tutto in… Piazza”.

Ma allora lo fai apposta…

“A fare cosa, gli spoiler? Dai, prometto che non lo faccio più”.

E ci credo. Domani è l’ultima puntata!

Intervista di Giuliano Bindoni
(©Riproduzione riservata)

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