Nel primo capitolo della nostra Falaschi Week si è parlato molto di tecnica ed è emerso quanto sia necessario anche avere una predisposizione al sacrificio per lavorare su se stessi facendo anche esercizi che, inizialmente, potrebbero risultare noiosi e ripetitivi. Ripartendo da qui, chiediamo a Marco se i giocatori di oggi, quelli più giovani, siano predisposti a questo tipo di lavoro oppure no. Andando a fondo della questione, poi, sono emerse anche altre differenze rispetto ai giocatori, per così dire, più maturi, o comunque rispetto alla pallavolo di qualche anno fa. Oggi è necessario avere un approccio differente sia dal punto di vista relazionale che del coaching e un altro tema che sta emergendo di recente è la necessità, sempre più diffusa, di un supporto psicologico. Come si inserisce la figura del capitano in tutto questo? Andiamo con ordine.
Fala i giocatori più giovani ce l’hanno oggi questa pazienza di cui parlavi, questa attitudine al sacrificio?
“La propensione al sacrificio è sicuramente diversa, ma questo è un cambiamento figlio di questi tempi. Questo è palese. Prima uno in palestra ci stava anche quattro, cinque ore, era anche una valvola di sfogo. Se tornavi a casa c’erano solo i libri di scuola ad aspettarti. Oggi invece i ragazzi hanno tante distrazioni e tante situazioni extra pallavolistiche. Ciò detto, però, non mi sento di dire che siano totalmente scapestrati, totalmente svogliati. Come in tutte le cose, bisogna trovare la comunicazione giusta, questo sì, perché se prima quello che ti diceva di fare l’allenatore tu lo facevi, adesso con loro serve fornire una spiegazione, anche tecnica. Ci vuole una maggiore attenzione in quello che si dice”.
Perché oggi funziona così?
“Perché all’inizio c’è sempre in loro un minimo di dubbio. Prima si rispettava forse di più la figura, il ruolo dell’allenatore. Accettavi il fatto che ne sapesse più di te, che avesse più esperienza di te, e ti affidavi senza farti troppe domande, facevi quello che ti veniva chiesto di fare. Oggi non funziona così, ma va detto comunque che quel dubbio iniziale che hanno i più giovani viene subito messo da parte una volta visti i risultati, una volta capito che quello che ti viene chiesto di fare porta effettivamente a dei miglioramenti. I giovani oggi hanno bisogno di avere degli obiettivi, degli stimoli differenti. In questo, ad esempio, essere un bravo allenatore gestore aiuta molto. Quelli bravi a gestire un gruppo, come abbiamo detto nella prima puntata, sono più bravi a toccare i tasti giusti di ogni singolo giocatore”.
Ci confermi, dunque, che oggi la comunicazione è una componente importante anche del coaching?
“Purtroppo sì. Dico purtroppo perché prima era tutto molto più semplice, mentre oggi bisogna davvero stare attenti a tutto. Bisogna pesare ogni parola ed essere in grado di toccare le corde giuste per ogni giocatore, perché, ripeto, non tutti sono uguali”.
Leggiamo sempre più spesso di giocatori e giocatrici giovani, anche giovanissimi, che necessitano di un supporto psicologico per performare al meglio, per gestire la pressione e le aspettative. È una cosa che c’è sempre stata e oggi se ne parla solo di più, oppure anche questo è figlio dei tempi?
“Prima era sicuramente più un tabù e anche per questo se ne parlava forse di meno. Onestamente, però, faccio fatica a ricordare persone che in passato abbiano raccontato di aver sofferto ad esempio di depressione, o di ansia, o di stress. Il primo se non ricordo male fu Marco Meoni, che smise di giocare dopo che iniziò ad avere attacchi di panico. A Verona nell’ultimo anno fece un lavoro psicologico, ma ricordo che iniziò a palleggiare di lato e quella era una forma di adattamento del corpo e della mente alla situazione che si era venuta a creare. Oggi c’è sicuramente più fragilità e questo credo che sia una conseguenza del cambiamento dei tempi. Se ne sente parlare sempre di più e si sente di più il bisogno di essere affiancati da professionisti”.
Che idea ti sei fatto su questi supporti psicologici ai giocatori?
“Io non sono per un no a priori. Ho avuto compagni di squadra che ne hanno avuto bisogno, ma quello che gli ho detto sempre, anche da capitano, è che se ne trovano giovamento va bene, però poi non deve succedere che se non c’è lo psicologo non riesci a giocare”.
Tu hai mai sentito il bisogno di avere questo tipo di supporto?
“No, devo dire di no, ma forse perché sono stato anche abituato in un certo modo. Davanti ai problemi ho sempre lavorato da solo per cercare la soluzione”.
E i ragazzi di oggi non sono in grado di farlo?
“Forse meno perché hanno meno strumenti per risolverli e per cavarsela da soli. Ripeto, nulla in contrario se decidono di farsi aiutare da un professionista, ma non deve essere una cosa totalizzante”.
Comunicazione e psicologia: un buon capitano immagino debba saperle padroneggiare entrambe. Ma cosa è chiamato a fare veramente un capitano all’interno di uno spogliatoio?
“Ultimamente io ho giocato in squadre che lottavano per salvarsi, diciamo che sono stati più frequenti i momenti in cui c’è stato bisogno di un confronto, di guardarsi negli occhi e dirsi, senza troppi giri di parole, che si era nella m…a. Questa, ad esempio, è una responsabilità che spetta più al capitano che all’allenatore. L’ho fatto a Taranto, l’ho fatto anche quest’anno dopo la partita persa a Monza. Lì sono andato a prendermeli uno per uno, ci siamo chiusi nello spogliatoio e abbiamo parlato tra di noi. Stessa cosa l’anno prima dopo la partita con Cisterna perché le cose si stavano complicando”.
Quali sono i segnali di un pericolo imminente?
“In un gruppo squadra ti rendi conto quando le cose non girano più come dovrebbero. I segnali li cogli anche in allenamento e lì il capitano deve essere bravo a spegnere subito l’incendio dicendo ‘ragazzi, adesso ci dobbiamo parlare due minuti’. Prima magari ne parli solo con qualcuno, un’altra volta magari lo lasci andare, il giorno dopo glielo fai capire in altre situazioni, certe volte anche con una semplice battuta, poi però quando le cose si complicano allora è necessario affrontare il problema tutti insieme”.
Perché questo spetterebbe al capitano e non all’allenatore?
“Lo fanno anche gli allenatori, sia chiaro, ma il capitano è una figura importante perché è quella che fa da raccordo tra la squadra e l’allenatore o tra la squadra e la società, ed è soprattutto quello che deve dare l’esempio. E lo fa certe volte anche sbagliando lui di proposito perché anche quello è un segnale forte. Faccio un esempio, ogni squadra si da sempre delle regole e delle multe. Una di queste erano 10 euro se si calcia il pallone. A me è capitato spesso: quando non ero contento di come stava girando l’allenamento, o dell’atteggiamento dei miei compagni, ho preso un pallone e l’ho calciato in tribuna. Il tutto senza proferire parola. Quando succede, tutti capiscano che quello è il segnale che sta a indicare che si è superato un certo limite e bisogna rientrare nei ranghi. Io ho pagato le mie multe, ma l’atteggiamento poi è sempre cambiato. Una provocazione che doveva servire a generare una reazione”.
Ho l’impressione che lei come capitano sia proprio un bel martello.
“Che fai, mi dai del lei adesso?”
Era in segno di rispetto.
“A chi?”
Al capitano. Mica mi darai una multa per questo…
“Ci devo pensare. Intanto fammi 100 bagher al muro bello teso senza far cadere la palla”.
Vabbè, ma così mi hai spoilerato la puntata di domani.
“OOOOPS!”
Intervista di Giuliano Bindoni
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