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Davide Mazzanti, dalla crisi al sogno: “Ma la svolta l’hanno data le ragazze”

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Di Eugenio Peralta

L’emozione è quella delle prime volte storiche, ed è di quelle che non si dimenticano più. Anche perché l’Italia, intesa come pallavolo femminile e anche maschile, non vinceva un torneo internazionale di primo piano da ben 10 anni, dalla lontana World Cup del 2011, quando Davide Mazzanti si esercitava a conquistare lo scudetto in quel di Bergamo. Adesso per il CT, dopo una via crucis estiva fatta di aspettative non soddisfatte e valanghe di insulti via social, è finalmente il tempo del sorriso e della festa.

Festa che si è celebrata nella sua Marotta, dove domenica Mazzanti ha addirittura sfilato per le vie del centro a bordo di una Cinquecento azzurra (qui il servizio del TGR Marche), insieme al compaesano e vice Matteo Bertini, per ricevere l’abbraccio della sua gente. Com’è nata questa singolare idea?

Mi era rimasta impressa la festa organizzata per la judoka Lucia Morico, anche lei di Marotta, quando vinse la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene 2004. Lei sfilò per la città a bordo di un Ape Car e mi sono sempre detto che sarebbe stata una figata rifarlo… E in effetti è stato divertentissimo. È sempre bello festeggiare con le persone, incontrare i tifosi all’aeroporto, ma è ancora meglio farlo con la gente accanto a cui sei nato e cresciuto. Non avevo mai vissuto questa sensazione di condivisione in modo così forte, ho la pelle d’oca a raccontarlo“.

Che sensazione si prova a portare a casa una vittoria così “pesante”?

È stata importante per il movimento, che attendeva già da un po’ di tempo, ma anche per il percorso che abbiamo compiuto come squadra. Dal 2017 a oggi abbiamo sempre ottenuto risultati importanti, il fatto di essere sempre stati nell’élite e di essere riusciti a vincere è qualcosa di speciale. Nella mia testa c’era da sempre il sogno di salire sul podio e ascoltare l’inno: nei club è bello, ma indossando la maglia dell’Italia lo è ancora di più. E poi c’è il fatto che questa volta la nostra bandiera era sopra a quella serba…

Già, la Serbia: un tabù finalmente cancellato.

Certo, aver vinto in quel modo in casa loro è stato emozionante. Ma devo dire che quando ho visto i volti di tante ragazze serbe e dello stesso Terzic dopo la cerimonia ho provato un profondo rispetto, pensando che spesso siamo stati noi nella loro situazione. E vincere è stato così bello proprio perché loro ci avevano messo tante volte in difficoltà in passato“.

Foto CEV

Dopo le Olimpiadi lei ha fatto molte scelte coraggiose, confermando alcune scelte e modificandone altre. Qual è stato l’aspetto che le ha creato più problemi?

Quello mentale. Quando siamo tornati in Italia abbiamo fatto grandi allenamenti a Roma, si vedeva una bella pallavolo, ma la tristezza delle Olimpiadi aleggiava ed era difficile ritrovare la consapevolezza dei nostri mezzi. L’umore del gruppo non migliorava e non ci aiutava ad avere costanza di rendimento, quella che ci è mancata anche nella prima fase degli Europei. Lo sforzo più grande è stato proprio quello, riprendere consapevolezza. Io però ho soltanto modificato qualche dettaglio nel gioco, ho puntualizzato due o tre cose, ma abbiamo continuato a prepararci come prima“.

E allora da dove è partita la svolta?

Sicuramente dalle ragazze, che dal primo giorno di ritiro di quest’anno hanno lavorato insieme come gruppo e hanno sempre continuato a farlo. Tantissimo merito va a loro: io ci ho messo soltanto l’idea tattica, ma non avevo le parole giuste per eliminare quella tristezza, avevo solo la pallavolo. La capacità di resistere alle difficoltà e alla delusione l’hanno avuta loro, nel modo di stare in campo, e loro hanno ritrovato la costanza di rendimento. Non è una sviolinata: davvero, in questa connessione che hanno ritrovato tra di loro c’erano tutta la rabbia e la voglia di rivincita del dopo-Tokyo. Molti mi hanno detto: hai rivoluzionato, hai ribaltato… ma io non mi sento di aver ribaltato nulla, le giocatrici hanno ottenuto qualcosa di importante“.

Foto CEV

Qualcosa però avrà pure detto, perché in finale si è vista davvero un’Italia diversa da quella dei Giochi.

Ma anche le Olimpiadi sarebbero potute andare in un altro modo, con due o tre palloni diversi contro gli Stati Uniti. Il confine tra un risultato positivo e uno negativo è sempre molto sottile: sono i dettagli che ti fanno vincere o perdere. Spesso quando vinci non fai meno errori di quando perdi, solo che in quel caso non li devi spiegare! Detto questo, è vero che con la Serbia a Tokyo qualcosa non andava: anche quando eravamo punto a punto ci sembrava di rincorrere sempre, perché non riuscivamo a tenere il loro ritmo. Io ho cercato di dare alle ragazze un’idea diversa, quella di pensare meno a cosa fare e più a come farlo“.

Quindi, a mente fredda (o quasi), qual è per lei il bilancio di quest’estate azzurra?

Le sconfitte sono come i lutti: si elaborano, ma non si eliminano. Adesso mi godo un risultato che mancava da un sacco di tempo, che fa bene a noi e al movimento. La sconfitta delle Olimpiadi però ce l’ho dentro, le ho detto di stare buona lì, che ci metto le mani in inverno. La utilizzerò soprattutto per me, perché mi ha lasciato una brutta sensazione, un po’ come dopo Piacenza (da cui fu esonerato nel 2012-2013, n.d.r.). Io sono uno che si mette in discussione sempre e soprattutto quando perde, non tanto come allenatore ma come persona: lo farò anche questa volta, sarà un inverno tosto“.

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La vittoria agli Europei però si inserisce in un anno indimenticabile per lo sport italiano: atletica, calcio, tennis, basket… Si sente parte di questi successi?

Certo, è stato un anno d’oro, che mi ha lasciato una sensazione ambivalente. Da un lato vedo che ci sono sempre più eccellenze, anche giovanissime, che mi stupiscono per atteggiamento, dedizione e qualità. Succede perché la nostra società è molto selettiva e crea eccellenze con sempre maggiore anticipo rispetto a qualche anno fa. Questo, d’altra parte, significa che avremo sempre più atleti ad alto livello, ma anche più persone che saranno in difficoltà perché non riescono a raggiungerlo: la forbice tra chi arriva e chi no si sta allargando in modo importante. Insomma, questa precocità rischia di tagliar fuori chi ha bisogno di più tempo per emergere“.

È un problema soltanto italiano?

Credo che sia un problema dello sport in generale, ma in Italia abbiamo una società particolarmente selettiva con i giovani. Siamo troppo critici con loro, li mettiamo sempre sotto forte stress. Per questo credo che vada aggiunto qualcosa ai nostri sistemi didattici: dovremmo insegnare, in palestra ma anche a scuola, ad avere un maggiore senso critico. I contenuti ci sono e sono tanti, ma bisogna che i giovani imparino a distinguere quello che è davvero importante da ciò che non lo è“.

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