Il CT della Tunisia Antonio Giacobbe: "Il buon gioco insegna il buon gioco"

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Di Redazione

Impegnato in questi giorni a Bari ai Mondiali con la propria nazionale, il CT della Tunisia, Antonio Giacobbe, si racconta alla “Gazzetta del Mezzogiorno”.

Nemmeno la seconda giornata scongela ribaltoni. Ma la noia è al bando. Ne passano quattro tra Russia, Usa, Serbia, Australia, Camerun e Tunisia. Ma a riprova del fatto che non ci sono match alla camomilla nel girone eliminatorio del mondiale maschile di scena a Bari, il taccuino dice che gli Usa hanno battuto l’Australia. Ma è stato come uscire dalle colonne d’Ercole: 3-2, al tiebreak, stesso risultato di mercoledì contro la Serbia. Che ieri ha superato il Camerun. E se gli «ortodossi» russi sfruttano il pomeriggio di riposo per visitare la città vecchia e chiedere protezione a San Nicola, gli islamici tunisini impiegano la giornata di sosta ad osservare l’Australia dalle mille risorse. E con loro, il 70enne coach livornese Antonio Giacobbe. La chiacchierata con Giacobbe è un tributo doveroso a chi, a meno di sorprese clamorose terminerà a Bari la corsa mondiale. Dopo aver perso la prima col Camerun, per abbattere il resto delle furie ci vorrà un’impresa alla Davide. Ma c’è una pallavolo fuori dal rettangolo che vale la pena raccontare. Ed è appunto quella scritta ormai da più di 30 anni da Giacobbe.

È un ritorno, il suo, al timone della nazionale di Tunisi. L’aveva già allenata dal 1999 fino al 2006, centrando il titolo continentale. Il rientro in Italia è durato poco perché dopo un anno è arrivata la chiamata dall’Egitto. Racconta: «Eravamo campioni d’Africa uscenti, è chiaro che questo scatenava qualche gelosia. In Egitto sono rimasto quattro anni, fino al 2010, l’anno del mondiale in Italia». Periodo egiziano «caldo», anche per un uomo di sport? «Ho vissuto la rivoluzione e la controrivoluzione con la cacciata dei Fratelli Mussulmani. Un periodo difficile da sopportare. Avevamo vinto i campionati africani in Tunisia, decisi di lasciare. Ma proprio in quel periodo mi arrivò la chiamata del Marocco, sono stati lì due anni, dal 2014 al 2016. Nel frattempo a Tunisi il medico che seguiva la nazionale tunisina che avevo allenato è diventato presidente della Federazione. Mi ha chiamato, ed eccomi qui di nuovo con la nazionale tunisina».

Che ricordi ha della parentesi barese? «Una finale, vinta, di Coppa Italia contro il Ravenna di Manù Benelli. Avevo allenato la nazionale e mi chiamarono a Bari. Ho ricordi bellissimi e ho ancora amici. Che ho ritrovato i questi giorni, primo fra tutti Roberto Brattoli, il mio secondo all’epoca».

E il nuovo capitolo tunisino? «Siamo tornati campioni d’Africa».

Incuriosisce molto la sua adesione al buddismo giapponese Soka Gakkai. «Sono buddista da vent’anni».

L’aiuta in una terra musulmana? «Noi non crediamo al caso. Sicuramente è un grande aiuto nel confronto con persone di un’altra cultura».

Tradotto nella pallavolo? «Non impongo nulla».

Ma lo sport richiede rigore, non è solo piacere, o no? «La mentalità lì è diversa, anche se il tunisino è il meno arabo di tutti. Si avvicina molto a quella dei nostri meridionali. Vede, io non mi pongo il problema se migliorarli, ma come possono farlo a partire da loro».

Logica maieutica? «Socrate è il mio maestro. Bisogna prima conoscere se stessi e gli altri, ma conoscere è anche un po’ amare le persone e minimizzare».

Ed è per questo che la sua filosofia d’allenamento mette al centro la palla? «Uso la palla perché il mio maestro è l’americano Carl McGown, maestro indiscusso per molti.. Mi è stato vicino alle Olimpiadi ad Atene. Diceva: the game teach the game, il gioco insegna il gioco. Che equivale a dire anche che è il buon gioco insegna il buon gioco».

D’accordo ma in questa era di fisicità basta l’imparar facendo? «Tutto quello che si usa lontano dalla metodica di gioco è difficile da trasferirlo nel giocatore, è fine a se stesso».

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